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PITTURA » Tematiche

 
Solo negli ultimi anni la critica artistica si è resa conto, e con un entusiasmo piuttosto inusuale, di come l'attività artistica italiana tra le due guerre non potesse considerarsi provinciale o limitata rispetto agli orizzonti europei. Si trattò, infatti, di un rovello artistico ricco di temi, dibattiti, opposizioni, per nulla assoggettato a limitazioni politiche o autarchiche (che peraltro, anche più latamente, non erano esistite fino agli ultimi anni del regime fascista), e invece perfettamente consapevole delle tendenze estere ma profondamente e sinceramente convinto della necessità di una parlata italiana, di un legame solido con le tradizioni nazionali. "Valori Plastici", il "Novecento" milanese prima e quello italiano poi, sono stati oggetto di rinnovati studi, di mostre importanti, così come i singoli protagonisti di quel periodo stanno avendo riconoscimenti liberi da pregiudizi storici. Per l'arte romana del Ventennio si è solo recentemente iniziato il recupero di quel clima che, non senza meraviglia degli studiosi che sempre se ne disinteressarono, appare sempre più dominante nel panorama italiano, per densità di poetiche e per qualità delle opere. Va aggiunto che l'euforia critica ha talvolta, logicamente, trasformato il recupero in "revival": atteggiamento più che giustificato, dopo tanti anni di silenzio su materiali così ricchi e preziosi, ma che porta in sé i germi della mancanza di selezione (impossibile d'altronde da operare su aspetti in gran parte ancora ignoti), la sopravalutazione o sottovalutazione di certe personalità, il rischio di accogliere indiscriminatamente ogni prodotto minore o maggiore ponendolo sullo stesso piano estetico, storico, di gusto, l'errore di passare sotto la medesima etichetta di Scuola Romana fenomeni diversi e indipendenti come il ritorno all'ordine degli anni Venti e le tendenze giovanili degli anni Trenta. Così, pur in questo fervore nel quale come si è detto emergono a tutto tondo personalità di artisti noti e meno noti (soprattutto grazie al fiorire di documentate monografie), manca a tutt'oggi una seria considerazione d'insieme dell'ambiente romano, una lucida prospettiva e, purtroppo, anche una precisa cronologizzazione critica degli incontri, degli avvenimenti, delle reciproche incidenze artistiche.
Il proposito di questa sezione, centrata sulla generzione più corettamente definita "Scuola romana", quella operante negli anni Trenta, che espone una larga scelta di capolavori di ciascun artista (quasi piccole monografiche), scremando i personaggi più significativi per poter finalmente operare un confronto di qualità e di poetiche, è quello di riconsiderare il valore e il peso di ciascuno, ponendo l'accento sugli esordi della nuova sensibilità espressiva romana nata alla fine degli anni Venti e sulle sue conclusioni più ricche di premesse per il futuro (la generazione cioè di Afro, Leoncillo, Scialoja, ecc.). 1. Storia di un sodalizio "platonico": surrealismo, tonalismo ed esoterismo nella pittura di Capogrossi e Cavalli
Raramente capita di riscontrare tra gli artisti un rapporto di lavoro così intenso, e simbiotico quasi, come fu quello di Capogrossi e Cavalli, che per circa vent'anni, attraverso una quotidiana frequentazione e un'amicizia ricca di scambi intellettuali, lavorarono, con le loro distinte sensibilità, intorno a un nucleo di idee comuni.
Per la particolarità delle circostanze, il sodalizio non ha riscosso l'attenzione storica e critica che la qualità delle realizzazioni avrebbe preteso: la singolare damnatio memoriae con cui Capogrossi, nelle sue scelte assolute di stile, investì il suo periodo "figurativo", coincidente peraltro con la piena maturità dell'età, ne fu una causa determinante; altrettanto determinante fu per Cavalli il ripiegamento psicologico, successivo alla seconda guerra mondiale, che lo spinse a un ritiro effettivo dalla scena pubblica inducendo la critica a una progressiva distorsione del suo ruolo nelle tendenze romane degli anni Trenta. Storta, preistoria e sviluppi di quella che Waldemar George definì con il fortunatissimo epiteto di Ecole de Rome, coniato per il gruppo formato da Capogrossi, Cavalli e dal loro amico Cagli, possono essere ripercorsi diacronicamente seguendo le fasi delle loro vicende parallele.
Quando nell'aprile del 1924 Capogrossi scrive un'affettuosissima lettera a Cavalli, i due hanno già stretto un'appassionata amicizia: Cavalli era appena partito militare per Firenze, e il loro legame si doveva esser creato e saldato durante il comune tirocinio nello studio di Carena, dove Capogrossi era entrato al principio dell'anno. II mondo al tempo stesso raffinato e primitivamente classicista di Carena ebbe profonda influenza sui due giovani artisti, e non solo per l'acquisizione della tecnica pittorica brillante e versatile del maestro, che traspare chiaramente dalle loro prime opere: accanto al pittore d'origine torinese, che aveva eletto il paesino di Anticoli Corrado a estiva dimora ispiratrice, gravitava infatti un mondo intellettuale ricco di sollecitazioni: "... in quella strana scuola internazionale che si chiama Anticoli Corrado...", come scrive nel 1927 Lionello Venturi, intorno a Carena si incontravano, tra gli altri, Arturo Martini e il suo colto e fin troppo intraprendente "impresario" Maurice Sterne, lo scultore jugoslavo Ivan Mestrovic e il pittoricamente eccentrico Ferrazzi, Luigi Pirandello e il figlio Fausto; quest'ultimo, proprio durante il comune alunnato presso Carena stringerà quell'intensa amicizia e concordanza di idee che lo indurrà a esporre, nel 1932, in gruppo con Cagli. Capogrossi, Cavalli e Paladini.
Chi abbia visitato Anticoli non si stupirà dell'appassionata infatuazione di Capogrossi, che nel 1924 così ne riferisce a Cavalli: "Sono rimasto assai impressionato dalla bellezza di Anticoli, e nei primi giorni ... ho cercato quindi di assimilarla". E non è forse ingiustificato pensare che la suggestione di quel mondo magicamente arcaico e atemporale abbia potuto costituire per lui e per Cavalli il fulcro poetico di un sentimento di sospensione misteriosa, di realtà stupita del suo stesso essere, di ripiegamento esoterico: elementi che saranno fondamentali nella loro opera successiva, e che spingerà entrambi a trascorrere ancora, dalla metà circa degli anni Trenta alla fine della guerra, lunghissimi periodi di astratto isolamento in Anticoli Corrado.
Se prima del ritorno di Cavalli da Firenze, nel dicembre 1926, non si ha ragione di ipotizzare progressi significativi nella pittura dei due amici, è intorno a quella data che il rapporto diviene più intenso e serrato, artisticamente produttivo. Cavalli, appena tornato a Roma comunica alla madre la sua ansia di rinnovamento dal carenismo iniziale: "Ho intenzione di dipingere in modo, affatto differente dalla maniera precedente: non sono affatto convinto del mio lavoro e per essere sincero con me stesso mi spoglierò da qualsiasi piaevolezza e immediatezza troppo comoda e facile a costo anche di cadere nel cerebralismo... Carena... mi ha fatto avere anche una tessera per la bellissima biblioteca d'arte del Palazzo Venezia". E in questo clima di rifiuto di ogni "piacevolezza° pittorica, e per contro di ricerca di contenuti diversi, "cerebrali", nutriti dallo studio dell'arte classica, che assieme a Capogrossi egli prepara i lavori che verranno esposti nel maggio del 1921 alla Pensione Dinesen in via delle Fiamme, oggi scomparsa sotto il tracciato di via Bissolati. Assieme a loro si presentò Francesco Di Cocco, raffinato pittore primitivista che l'anno precedente aveva esposto alla I mostra del Novecento Italiano. In quell'epoca i tre dipingevano spesso assieme nello studio di Capogrossi in via Marianna Dionigi: come ricorda Di Cocco. "... lì facevano delle sedute, dipingevamo delle nature morte... Ho ancora una pittura di quell'epoca e la fecero analoga anche Capogrossi e Cavalli: lo stesso manichino vestito da Capitano di Cappa e Spada, perché Capogrossi aveva avuto una commissione". Ma la partecipazione di Di Cocco al sodalizio è episodica, e non troverà seguito se non in una esposizione tenuta a Parigi nel 1928 insieme a Pirandello e Cavalli: "Con Capogrossi e Cavalli quella nostra s'era fatta occasionalmente… sì, volevamo fare un gruppo... ma poi loro si unirono con Pier Maria Bardi... io invece non ne volli sapere". La distanza delle ricerche di Di Cocco da quelle invece già contigue dei due compagni viene peraltro notata dalla critica del tempo, come da alcuni attenti osservatori vennero captate le novità in fieri di quest'arte giovanile, che piega gli echi di Carena, di Guidi o di Spadini a una necessità estetica nuova, originale, che "annunzia un temperamento assai moderno, per guanto studioso degli antichi". Certe espressività caricate, certe deformazioni spaziali sostenute da un colore accesso da bagliori innaturali, corposo e costruttivo (come ad esempio nell'Autoritratto di Capogrossi, o nel Ponte ferroviario di Cavalli ), costituirono indubbiamente una delle voci più innovative dell'ambiente romano di quegli anni, non a caso percepita in questa fase, e rieccheggiata nelle prime opere autonome dell'ancora embrionale gruppo di via Cavour, attentissimo alle novità romane: come dimostrano le firme di Mafai e Mazzacurati nella prima pagina dell'album della mostra, conservato dagli eredi Cavalli, ma soprattutto le opere databili al 1928 come il Ponte Palatino Giovare e arancio di Mafai o i Paesaggi di Collepardo di Scipione. memori dei quadri esposti alla Dinesen nel taglio e nella resa pittorica; anche De Libero, in uno scritto del 1954 sulla pittura romana degli anni Trenta, rammenta che "Capogrossi e Cavalli fecero una bella mostra alla pensione Dinesen, rivelandosi pittori da tener d'occhio".
Dopo questa prima uscita pubblica, i due giovani pittori sono decisi ad affrontare l'incontro con le novità del mondo parigino, ove già Di Cocco era stato a più riprese, dove l'amico fraterno Martinelli (anch'esso allievo di Carena) si trovava da diversi mesi , e dove Pirandello si stava accingendo a trasferire. Se il viaggio e la permanenza di Cavalli in Francia sono databili persino al giorno di partenza e di ritorno, dal 15 febbraio al 13 dicembre 1928, i soggiorni parigini di Capogrossi riservano una quantità di lati oscuri, e non furono mai probabilmente più lunghi di qualche mese. Comunque, quando Cavalli tornò da Parigi non si fermò a Roma e proseguì per Lucera, dove avrebbe trascorso il Natale con la famiglia; lì Capogrossí lo raggiunse precipitosamente per aggiornarsi su tutte le novità osservate e vissute dall'amico. Cavalli rimarrà a Lucera per un anno, in volontario isolamento, meditando sulla pittura ma soprattutto sulla sua iniziazione a una Società esoterica, avvenuta in Francia. Fatto sta che Capogrossi è spaesato, vive un amore contrastato con Pasqualina Spadini, vedova del pittore fiorentino, e sembra risentire del distacco temporaneo da Cavalli sia psicologicamente che creativamente; come scrive a Cavalli il 10.VIIl.l929, "... io ormai da parecchio ho, come dici tu, nausea dei colori, punta voglia di tare. La mente è distratta, e il cervello si rifiuta d'applicarsi!... A passare la sera in conversazioni piacevoli con gli amici (dove sono?) neppure a sperarlo... Devi dirmi della tua vita attuale, di quello che fai e di quello che intendi fare. Cioè ti domando se pensi di ritornare a Parigi. Io se riesco a sistemare il fatto economico, sarei disposto ad andare... Pirandello è già là e noi tre si starebbe bene... Scrivimi, parlami di te... Voglimi bene e credi nel mio affetto per te". Cavalli preoccupato dello stato dell'amico si reca a Roma nel settembre per confortarlo; in quell'occasione Capogrossi gli dona un piccolo ma interessante quadro, che dimostra a un tempo stasi stilistica e un appassionato studio della pittura antica, soprattutto quattrocentesca, parallelo alle ricerche di Di Cocco.
Gli anni 1930-31 sono avari di notizie su Capogrossi, in questo lasso cronologico deve comunque collocarsi certamente un suo viaggio a Parigi, che, al rientro in Roma nell'estate del 1931, torna a formare con l'amico Cavalli un sodalizio a questo punto assai più maturo e ricco di stimoli. Se già, come testimonia Francesco Di Cocco, i due erano usi negli anni Venti a lavorare insieme nello studio di Capogrossi, il loro legame si intreccia ora in modo, se possibile, ancor più indissolubile e inseparabile: Capogrossi abbandona i1 suo vecchio studio e affitta insieme a Cavalli due stanze sulla terrazza di una palazzina in via Pompeo Mano, al 10 bis.
L'idea fondamentale intorno alla quale si svolsero le loro comuni ricerche, cui andarono progressivamente accostandosi il giovanissimo Cagli, Pirandello, Monti, Melli, e in seguito Ziveri, Janni e Gentilini, è la realizzazione del quadro come rappresentazione "assoluta" della realtà: nel dipinto ogni elemento, per risultare "universale" deve esser reso secondo il suo tono locale, secondo cioè quella qualità di colore che gli compete, "platonicamente", al di là delle contingenze, dei mutamenti d'ombra e di luce '. Un antiimpressionismo al quale si connette un forte senso della costruzione geometrizzante, espressione anch'essa di assolutezza e di rigore formale. Tale concezione del colore, che varrà al movimento creato da Capogrossi, Cavalli e Cagli l'appellativo di "pittura tonale", o "tonalismo", ha profonde radici nell'ideologia esoterica di Cavalli, cui Capogrossi rifiutò sempre di partecipare attivamente, ma che indubbiamente lo affascinava e lo coinvolgeva, sia pur da dilettante "filosofo" e non da iniziato: tra poco si avrà modo di considerarne più attentamente le connessioni... ma prima è interessante notare lo svolgimento più strettamente teorico e stilistico del movimento.
Se l'apparizione all'esposizione Sindacale laziale nel marzo del 1932 costituiva per entrambi i pittori la prima e contraddittoria realizzazione della loro ideologia tonale, subito dopo, in maggio, Pier Maria Bardi offre loro l'occasione di presentarsi in un gruppo più nutrito con gli amici Pirandello, Cagli e Paladini, organizzando una collettiva di cinque romani che (come ricorderà più tardi lo stesso Pirandello) "... si contrapponevano agli altrettanti pittori milanesi, in una mostra di confronto che voleva essere quasi una partita (come quella di calcio)", nella quale i "giocatori" fossero i più interessati e originali artisti che operavano nelle due città: i milanesi erano Birolli, Bogliardi, Ghiringhelli, Sassu e Soldati. In questo primissimo periodo la tecnica tonale di entrambi rivela un richiamo alla spatolatura (d'origine cubista) di Pirandello, più palese in Cavalli (Paesaggio di Roma, Il pittore, Nudi, Natura morta) più dissimulata, rarefatta e modulata in Capogrossi (Nudo cori corazza, Dorma con arancia, Natura morta); non è certo un caso che in una lettera del 23.IX.1931 Pirandello scrivesse a Cavalli, dimostrando un dibattito sul tema già avanzato, a proposito del tonalismo: "L'altra sera a casa di Alderighi abbiamo visto (c'era pure Maselli) tuoi antichi quadri che ci sono però piaciuti assai... sorprendente, poi, l'intonazione o, meglio, il tonalismo" . Di lì a poco, nel dicembre, Cagli Cavalli e Capogrossi (insieme alla pittrice Eloisa Michelacci) esporranno nuovamente alla Galleria di Roma realizzando il manipolo decisivo che sarà, con l'aggiunta di Sclavi, a Parigi l'anno seguente: e Capogrossi in particolare ha fatto dei progressi decisivi: "... quest'estate ha riassunto e concretato le sue esperienze in un dipingere chiaro, corposo, murale. Colore contenuto, dai toni opachi, essenzialità disegnativa...". Tecnicamente gli assunti del tonalismo appaiono a questo punto risolti, escono dallo sperimentalismo, e da quel momento la pittura dei due artisti proseguirà parallela su questa risoluzione di stile chiaro, netto, che ha la monumentalità degli affreschi pierfrancescani. Ma quale sia la quantità di stimoli e di incontri che condusse, alla fine dei 1932, alla formalizzazione degli ideali tonali, va qui sia pur brevemente indicato.
A Parigi, nell'ambiente che Pirandello e Cavalli frequentarono, e nel quale indubbiamente anche Capogrossi ebbe modo di trovarsi, cioè quello degli "Italiens de París" (cfr. nota n. l4), le maggiori attenzioni furono riservate certo alle figure arcaiche e allo stile sintetico, d'affresco antico di Campigli, a certe classicheggianti eccentricità di Tozzi, al De Chirico non solo parigino ma anche romano (come è evidente nello Studio di testa del 1929 e, in modo differente, nel Nudo con corazza del 1932 di Capogrossi): dei francesi certo il più indagato fu Picasso, da quello "azzurro" e "rosa" degli Arlecchini a quello cubista, al "neo-classico", ma anche Dérain e Modigliani poterono suggerire quel senso di silhouettes campite, di plasticismo risolto col tono e non col disegno e col chiaroscuro. Come si è già accennato, Pirandello dovette essere, fin dal tempo di Parigi negli anni Venti, di grande importanza nelle discussioni che coinvolgevano gli ideali di Capogrossi e Cavalli: la sua conoscenza e la passione per la pittura cubista dovettero suggerire agli amici pittori di non considerare più la pittura per via di "spezzettamenti tonali" (son parole di Pirandello), ma per spessore di materia: va tuttavia sottolineato che la sua posizione rivestì sempre una personalissima eccentricità, così che al di là della frequentazione e assiduità intellettuale, dopo la prima uscita di gruppo egli non fu più loro compagno in esposizioni di tendenza.
A Roma invece, tra il 1931 e il principio del 1932 ci furono per Capogrossi e Cavalli due incontri importanti. e in un certo senso determinanti: quello con Cagli e quello con Melli. La personalità intelligente stravagante e brillante di Cagli (nipote di Massimo Bontempelli), naturalmente protagonistica, dovette avere un ruolo assai significativo per il sodalizio dei due pittori: non nel senso di influenza diretta, la sua azione dovette essere piuttosto quella di far scoccare una scinttilla maieutica, stimolando quanto era presente in nuce, teoricamente, nelle idee dei due giovani pittori, al tempo stesso utilizzandole e facendole sue, mantenendo comunque una personalità e uno stile assai autonomi fin dagli inizi. Nielli, che secondo lo stesso Cavalli "si inserì buon ultimo nel gruppo, cercando di dialettizzarlo attraverso articoli sui giornali", trovò nel nascente tonalismo uno stimolo nuovo per la sua pittura, e la sua funzione fu più che altro quella di coordinare e diffondere le idee di questa nuova tendenza, e se pur qualcosa della tersa visione di Melli rimase impigliato nelle maglie neo-metafisiche della pittura tonale, l'influenza fu ampiamente reciproca.
Altri importanti punti di riferimento in questa complessa elaborazione di stile furono rappresentati da Morandi, con la sua già risolta sintesi di colore-forma, da Carrà e da Ceracchini per quel "primitivismo" ieratico che scandisce geometricamente la composizione.
Nel 1932 si crea dunque, intorno al rapporto privilegiato di Capogrossi e Cavalli, un momento di singolare coesione culturale, un ambiente suggestivo e ancora poco indagato, di straordinario fermento. Alle quotidiane discussioni sul tema del tonalismo che si svolgevano in una bottiglieria in via Cola di Rienzo, i cui fedelissimi partecipanti erano Cagli, Capogrossi e Cavalli ("Non si tratta di tre che dipingono insieme, ma di tre che speculano insieme, nel senso più tradizionale", scrive P.M. Bardi nel febbraio del 1933, assieme a Pirandello, Melli, Monti, all'eccentrico filosofo Ciliberti, e talvolta Janni e Ziveri, corrispondevano le suggestive stasi bohémiennes, nutrite di argomenti artistici e filosofici, sul galleggiante Tofini del Tevere, presso il ponte Margherita, dove oltre ai suddetti personaggi si incontravano Vinicio Paladini, La Padula, Andrea Spadini, Katy Castellucci, Guttuso, Caputi, Pier Maria Bardi, Elsa Morante, Romeo Lucchese, ecc.Quali fossero le discussioni che animavano quel gruppo di giovani, è in parte ricordato da Vera Cavalli, che cominciò a frequentarlo dall'inizio del 1933. Vera Haberfeld arrivò a Roma nell'ottobre del 1932 e andò ad abitare dallo zio Edoardo Weiss, il famoso psicanalista triestino che tradusse in Italia le opere di Freud (al quale fu vicino durante i suoi studi a Vienna), autore degli Elementi dl psicoanalisi e fondatore della Società psicoanalitica italiana. Così questo tema, che aveva contribuito a fecondare il surrealismo francese, divenne accessibile materia ai pittori del galleggiante Tofini, che anche dal surrealismo erano attratti e affascinati: le letture di Eluard, di Bréton, trovarono il corrispettivo figurativo a Roma nella figura oggi completamente ignorata di Vinicio Paladini, architetto razionalista, ex futurista, bolscevico, che aveva esposto nella prima mostra di gruppo alla Galleria di Roma assieme ai cinque romani. Amico strettissimo di Capogrossi (che nel 1934 gli fece un ritratto ) e Cavalli, nel 1933 espone da Bragaglia quadri decisamente surrealisti mutuati soprattutto da Max Ernst, ma anche da Magritte, Dalì e De Chirico; la sua adesione spirituale al movimento è tale, che nel gennaio 1935 pubblicava sulla rivista "Occidente" un saggio sui "romanzi" di Max Ernst, dove tratta di Une sémaine de bonté (edito a Parigi pochi mesi prima) in questi termini: "Il nome di Max Ernst é uno di quei pochi che oggi possono significare un indirizzo preciso nell'organizzantesi nuovo mondo figurativo europeo". Se dunque il surrealismo era uno dei termini più importanti di riferimento per questa nascente tendenza romana (e nel Cagli del 1932-33 la traccia ne é assai evidente, assieme all'ispirazione picassiana), è altrettanto vero che il controllo "classicistico" di Cavalli e Capogrossi è tale da renderlo poetica assolutamente introiettata, tutta flagrante nella loro magica realtà cristallizzata ma assolutamente velata nell'iconografia, che solo raramente lascia trasparire l'inquietante matrice sopra-reale (ad esempio ne Lo spogliatotio degli uomini, sul Tevere (Amanti) e Sogno d'acquario di Capogrossi, o in Mattino e Un sogno di Cavalli). In questo senso l'influenza di Bontempelli, assiduamente frequentato dal gruppo anche in virtù della parentela con Cagli, contribuisce a focalizzare questa controparte tipicamente italiana del surrealismo che è il "realismo magico"; "E posso similmente accettare il surrealismo - scrive Bontempelli nel marzo 1935 - in quanto s'intenda che l'arte consiste non nel darci il surreale puro (che non vuol dir niente) ma nello scoprire e indicare, il surreale nel reale. E la stessa necessità, di natura demiurgica, per la quale in natura non possiamo concepire lo spirito come isolato e puro, ma dobbiamo concepire la materia come spirito" . "Le aritmetiche sono anche più implacabili dei sogni", scriveva ancora Bontempelli in Vita e morte di Adria e dei suoi figli, e questo capirono anche Capogrossi e Cavalli nel costruire le loro algebriche relazioni di toni e di forme.
II 31 ottobre 1933 viene redatto dal "gruppo" il Manifesto del Primordialismo Plastico, che fu firmato da Capogrossi, Cavalli e Melli, quest'ultimo qualificandosi come "critico d'arte" e non come pittore. Al manifesto manca la firma di Cagli, che aveva contribuito all'elaborazione e alla stesura dello scritto, per via di qualche disaccordo con gli altri pittori: seppur si ricompose subito dopo, l'episodio pure aveva mostrato la solidarietà di Cavalli per l'amico Capogrossi anche in quel frangente". All'interno del manifesto sono comunque identificabili, anche se intimamente fusi, gli apporti dei diversi formulatori. Come notava recentemente Crispolti, "La distanza che si determina fra Cagli e gli altri, sottoscrittori del manifesto, è forse [che]... per il primo il primordio é condizione mito-poietica aurorale, per i secondi il "primordialismo" è appunto sostanzialmente "plastico". La spiritualità orfica non investe l'immagine, ma nasce nella lievitazione lirica spirituale dell'immagine come "fatto vivente" . Se dunque Cagli è portatore del concetto di "mitologia moderna" d'origine peraltro bontempelliana, che lo induce a traslare continuamente le immagini in "una dimensione di primordialità mitica (di gesti, quindi anche di caratterizzazioni)" (Crispolti), soprattutto a Cavalli, spiritualista convinto ed esoterico praticante, nella pur costante presenza intellettuale dell'amico Capogrossi, vanno riferiti i frequenti accenni ai "valori cosmici, essenziali", e le elucubrazioni sulla natura misterica del colore, sul rapporto colore - forma e colore - energia spirituale.
Come questo atteggiamento tragico-filosofico si collochi nella Roma dei primi anni Trenta, e quale fondamentale importanza abbia rivestito nella formulazione stessa del concetto di "tonalismo", è ancora argomento da approfondire realmente . Certamente Roma non era insensibile a sollecitazioni esoteriche, e basta fare un giro brevissimo di orizzonti negli ambienti artistici e letterari per rendersene conto: non è un caso che Luigi Pirandello inserisca nella biblioteca di Anselmo Paleari, personaggio del fu Mattia Pascal, titoli di libri scritti da famosi iniziati come Annie Besant, Elena Petrovna Blavatslcij, Théophile Pasca) e C.W. Leacibeater (il Pano astrale di quest'ultimo è ancora conservato nella biblioteca pirandelliana); in un saggio su Magia, teosofia e spiritismo in Pirandello, Giovanni Macchia scrive: "Nata su basi magiche, dall'osservazione scarsamente sistemetica di pratiche, d'incantesimi in cui sono le cose ad agire come dotate di particolari proprietà magiche (vegetali, minerali, oggetti capaci di guarigione) quasi per una legge di simpatia, la sua "dottrina" vagava tra magia, teosofia e spiritismo". Stretti contatti con la magia cosiddetta "nera" ebbe invece Scipione, spintovi forse da un'ansia di malato inguaribile; paradigmatico in questo senso è l'Asso di spade, nel quale si può riconoscere la preparazione di un rito satanico, di una fattura che significa morte e malattia.
Se dunque, come si accennava più sopra, Capogrossi non si affiliò mai ad alcuna Società esoterica, tuttavia la suggestione di un mondo magico traspare in molti suoi quadri; un aspetto curioso ed interessante è rappresentato ad esempio dalla singolare attenzione dedicata (parallelamente a Cagli e Cavalli) alle iniziatiche pitture della Villa dei Misteri di Pompei echeggiate iconograficamente nel Poeta del Tevere , e simbolicamente nel mercuriale "Psicopompo" che conduce l'anima bendata nello Spogliatoio degli uomini". Emanuele Cavalli invece faceva parte di una organizzazione fondata alla fine del secolo scorso dallo studioso di scienze parapsicologiche G. Kremmerz, con il quale intrattenne anche una corrispondenza, conservata negli archivi della famiglia. Nella dottrina di Kremmerz, di derivazione nettamente antroposofica, ogni parte dell'universo si risponde secondo relazioni misteriose, ed è abitata da spiriti di diverse nature; l'uomo saggio impara a conoscerle, e a entrare in sintonia con le leggi che lo governano. "Desideriamo cogliere i rapporti fra il plastico e il principio spirituale del nostro tempo onde dai nuovi aspetti della realtà fluiranno i moderni miti. Vogliamo operare per il futuro, seguendo l'intuizione di attività plastiche identiche allo spirito che le ha mosse in noi: identificare, cioè, la sostanza pittorica con la natura delle energie spirituali che ci premono: cogliere la relazione tra il significato della forma e la natura della sostanza pittorica; superare il colore come espressione naturale; ricavare da esso un ordine, nella sua infinita varietà, identico alla sostanza della spiritualità moderna. Ma il colore non è l'arte della pittura e la materia va distrutta nella cosa creata. Tuttavia l'arte della pittura è rapporto di colore che suscita l'architettura del dipinto, la distribuzione dei suoi spazi, l'essenzialità tipica delle sue forme. Come l'universo è determinato dallo spazio e dalla luce: dal volume come accidente dello spazio, e dal colore come accidente della luce, così l'arte della pittura deve essere spazio, luce, volume, colore ai fini della creazione. Dal colore si deve tutto trarre ma il risultato non è colore: è "un fatto vivente" (Manifesto del Primordialismo Plastico). Tutto questo testo è evidentemente scritto in un linguaggio tipicamente ermetico, e la trasformazione degli elementi (i colori) in "un fatto vivente", altro non rappresenta che la trasposizione in pittura della "fioritura" alchemica, come la materia "distrutta nella cosa creata" non è che il primo stadio dell'opus, la "putrefactio", l'opera al nero. La straordinaria e ideale, quasi inarrivabile perfezione dell'opera, si identifica in un microcosmo come immagine riflettente il macrocosmo in tutti i suoi aspetti: "Tu lo sai... che prediligo una pittura forse ancora inesistente. Una pittura che non si veda, profondamente armonica fino nella sua struttura intima - per dire - sempre uguale a se stessa come un cristallo che scisso in più parti conserva continuamente la sua forma" scriveva Cavalli a V. Paladini nel 1935".Il colore riveste in ogni dottrina iniziatica un valore particolare, che non solo è l'indice dei vari stati dell'essere e quindi li riassume, ma è anche un mezzo per indurli, evocarli, che desta relazioni nelle sfere spirituali. E' evidente quindi, che in una simile ottica il colore, per un pittore, rappresenti qualcosa di simile a quello che per un alchimista sono gli elementi primari, generativi, dell'opus; e vorrei qui incidentalmente ricordare come un quadro di Victor Brauner, intitolato Il.Surrealista, altro non rappresenta che un alchimista con tutti i suoi simboli: la "sopra realtà" esoterica, cromatica e compositiva dei due pittori rivela così, anche indipendentemente dai riferimenti diretti, notevoli assonanze con l'ideale surrealista europeo, pur convertito alla misura "italiana" del reale.
In questo atteggiamento è sotteso un fortissimo disegno platonico (Platone era appassionatamente letto sugli argini del Tevere; in un quadro di Cavalli del 1929 - Natura morta - appare persino come citazione sul dorso di un libro). E, a parte le sperimentazioni compositive e cromatiche, è interessante soffermarsi su un aspetto piuttosto originale di questo stile elaborato dal gruppo di Cagli, Capogrossi e Cavalli, che si potrebbe definire (parafrasando il titolo della presentazione di Bontempelli a una mostra di disegni di Cagli nel 1930 un'idea del disegno. La tecnica comunemente definita disegno a olio a proposito dei disegni di Cagli, e impiegata indifferentemente dai tre pittori, è in realtà un'astrazione singolare: il disegno veniva realizzato, tramite la pressione di una punta non scrivente, sul verso di un foglio preparato, una sorta di carta copiativa; il segno veniva così trascritto su un foglio sottostante, che costituiva l'opera definitiva. Il processo realizzava da una parte una figurazione nella quale il virtuosismo tecnico, caratterizzante lo stile del singolo pittore, veniva attutito e annullato, tendendo così a un universalismo senza" accidenti", spersonalizzato; d'altra parte, un po' surrealisticamente, la figurazione non seguita nella sua evoluzione, che appare alla fine interamente realizzata, corrisponde alla trascrizione "automatica" e non mediata dell'archetipo. Platonicamente sottile, questa idea del disegno iperuranio e "primordiale" (in cui il primordio è lo stato più vicino all'idea), apollineo e classico nella creazione d'una nuova mitologia novecentesca, differisce in maniera eclatante da quello sensibile e vermicolante, dionisiaco della Scuola di via Cavour.
Dopo queste note si comprenderà agevolmente come Mafai, intervenuto non più di un paio di volte alle riunioni della bottiglieria in via Cola di Rienzo, alle elucubrazioni dei nostri pittori idealisti e teoretici rispose che non soffriva quel tipo di ragionamenti astratti, che non erano altro che chiacchiere, "masturbazioni"; insomma non gli interessava "filosofeggiare la pittura". Tale episodio rende molto dialetticamente la grande distanza di ricerche che intercorreva tra il gruppo di via Cavour e quello di via Pompeo Magno, della Scuola romana tonale; una differenza per certi versi - mi si permetta il paragone - simile a quella che intercorre tra Ungaretti e le sublimi ingegnosità di Pirandello e Bontempelli.
Gli anni seguenti il 1933 furono gli anni delle mostre (Biennali, Quadriennali, Sindacali, ecc.) nelle quali le visioni personali di Cagli, Pirandello, Melli sempre compagni d'arte e di strada, vanno differenziandosi progressivamente da quelle di Capogrossi e Cavalli, che invece divengono sempre più tangenti nella realizzazione degli ideali comuni di astrazione cromatica e formale. Quando nel maggio 1935 Cavalli si recò con la moglie Vera in viaggio di nozze ad Anticoli Corrado, forse non immaginava che quello sarebbe stato per dieci anni il luogo nel quale principalmente avrebbe vissuto. E forse neanche Capogrossi v'avrebbe passato, se non ospite dell'amico, molti mesi dell'anno, soprattutto quelli estivi: almeno fino al 1939 quando, dopo esser tornato a Roma da Narni, vi si trasferì definitivamente affittando una casa-studio in via del Gorgone (oggi al n. 32), di fronte all'Uliva murata (abitazione estiva di Cavalli e già di Carena). Nuovamente immerso, come a ventiquattro anni, nel clima lento e attraente del paese, Capogrossi giunse alla distillazione assoluta tanto del fare pittorico quanto dei soggetti, sospesi misteriosamente in un'aura di meditazione. Se Cavalli, nella serie di quadri presentati alla Biennale di Venezia del 1938, cantava con toni magici delle parabole esplicitamente alchemiche (Il solitario, Un sogno. ecc.), contemporaneamente Capogrossi sviluppava i temi dei teatrini popolari, dei personaggi da baraccone equestre (esposti alla Quadriennale de! 1939), che paiono usciti dalle pagine di Eva ultima di Bontempelli, arcani burattini retti da fili invisibili come il Bululù del mondo "altro" della narrazione Giuseppe Pensabene, critico del "Tevere", fu tra i pochi in quegli anni a notare (ma in negativo) le straordinarie novità intellettuali del vecchio gruppo dell'Ecole de Rome, aggredendo "... quel pasticcio classico surrealista, lanciato nel dicembre del 1933 nella galleria Bonjean di Parigi. dal critico ebreo Waldemar George col contributo del conte Sarmiento ( che pare avesse la funzione di dare il battesimo ebraico e internazionalista ai giovani artisti italiani, che si recavano a Parigi)". II rapporto di Capogrossi e Cavalli prosegue sempre strettamente intrecciato e simbiotico: nel 1941 scrivono insieme una lettera a Virgilio Guzzi con l'idea di fare una mostra di gruppo alla Galleria di Roma; questa volta si vuol prescindere dalla "questione delle tendenze" (anche perché la loro pittura, benché avesse nutrito buona parte delle tendenze romane degli anni Trenta aveva raggiunto un carattere monadico e impenetrabile) e affidarsi solamente alle "qualità morali" e alle "qualità di artista": in questo sentono Guzzi, Ziveri, Mirko e Mazzacurati degni di partecipare con loro a un quadro complessivo della pittura romana. Queste scelte hanno d'altra parte un corrispettivo nel mutamento espressivo di Capogrossi, iniziato proprio nel 1941 con le prime Ballerine, in cui la materia va ispessendosi. semplificandosi, accompagnando visibilmente il ductus più tormentato e gestuale del pennello. E' l'inizio di una sensibilità che ritrova e risperimenta certe radici d'origine cubista in cui si semplificano e intersecano piani con cadenze geometriche e cromatiche. alla maniera, lontanamente, di Metzinger o di Gleizes. In questo mutamento troverà una pausa il rapporto con Cavalli, che invece continuerà a elaborare le infinite possibilità del tonalismo ermetico con accenti di classicità assoluta, atemporale, intensissima.
Ma la pausa sarà solo di natura pittorica, e non coinvolgerà mai il loro intenso rapporto umano. E interessante notare come, alla soglia delle esperienze astratte, Capogrossi scriva due lettere da Iselsberg quasi contemporaneamente a Guzzi e a Cavalli; nella prima, del 30.VI.1949, il pittore è molto esplicito circa la sua attività: "In questo periodo io prescindo dall'oggetto naturale"; nella seconda velata quasi di un certo pudore affettuosamente riferisce: "Non c'è da fare paesaggi per il gusto nostro, ma io in questo periodo lavoro di maniera e allora qualunque posto è buono" Se poi mi va di lavorare con il vero faccio qualche albero o altre cose sempre in quel campo di esperienze che mi interessano". E comunque impressionante notare come i due artisti ancora parlino della pittura non come qualcosa che li competa singolarmente, ma che li coinvolga entrambi in un'unica esperienza; a questo concetto dà forza l'uso continuo della prima persona plurale: "paesaggi per il gusto nostro" dice Capogrossi nel brano appena riportato, e così Cavalli, in una pagina del diario del 1944 (nella quale sintetizza una bellissima definizione del tonalismo), ostinatamente annota al plurale: "Importante quello che differenzia la nostra pittura dalla precedente. Mentre nella nostra il colore nella sua essenza tonale non dà luce che per accostamenti, vuol essere vibrante ma direi opaca, nella pittura che ci ha preceduto la luce riveste e scorre sui colori. Il nostro quadro risulta meno accidentale e quasi vuoto, a volte scheletrico".
Col mutamento astratto di Capogrossi, notificato dall'artista a Cavalli nel settembre del 1949, durante il viaggio di ritorno a Roma dall'Austria (Cavalli abitava in quell'epoca a Firenze), si interrompe ineluttabilmente una ricerca artistica comune che aveva arricchito per venti anni la cultura italiana del nostro secolo. 2. Storia di un sodalizio "dionisiaco": primitivismo, espressionismo visionario e realtà nella pittura di Scipione e Mafa
II sodalizio formato da Scipione e Mafai fu cronologicamente più breve di quello intrattenuto da Cavalli e Capogrossi, ma non meno intenso: a partire dal 1924 i due si unirono e mischiarono le loro ansie, le loro aspirazioni, veramente "come un mazzo di carte" finché la morte di Scipione, nel 1933, non troncò quell'appassionato rapporto di vita e di arte.
L'incontro tra i due artisti, entrambi giovanissimi (Scipione era appena ventenne, Mafai aveva ventidue anni) avvenne nel 1924 per una circostanza casuale, la segnalazione di un amico di Mafai militare; il ricordo del fatto viene narrato in seguito, con trepida sensibilità, dallo stesso Mafai, che trova un'immediata sintonia con Scipione Bonichi, già malato di tubercolosi, ma dotato di una vitalità sconcertante''.
Strettasi questa reciproca simpatia, i due amici progettano di progredire assieme nella pittura, che praticavano ancora da dilettanti. Mafai già aveva seguito dei corsi alla Scuola di arti industriali di via S. Giacomo dove era stato allievo di Antonio Calcagnadoro, pittore tardo-liberty, dalla tecnica materica e dai colori scuri. Egli condurrà Scipione alla Scuola libera del nudo di via Ripetta, dove insegnava il suo vecchio maestro, e dove si esercitano nella copia da modello. Tra la fine del 1924 e i primi mesi dell'anno seguente essi fanno la conoscenza di Antonietta Raphaël, una lituana emigrata giovanissima dalla Russia, con la madre, prima a Londra, poi a Parigi e infine giunta a Roma fermandosi nel sud della Francia. "La prima volta che andai nello studio che Mario divideva con Scipione e mi fece vedere i suoi quadri, gli dissi che non mi piacevano, erano troppo tristi. Un mese dopo mi portò un mazzetto di mughetti. Era il suo compleanno. Mi disse: Antonietta, fammi un regalo, dipingili. Tornò dopo due ore. È fantastico, disse, devi continuare. E così cominciai".
Fino ad allora la Raphaël non si era mai dedicata, né interessata, se non occasionalmente, alla pittura: aveva studiato pianoforte, insegnato solfeggio, cantato; la musica era stata il suo interesse dominante. Si è spesso parlato dell'influenza della Raphaël sul sodalizio Scipione-Mafai col suo portato di culture ebraiche, russe, inglesi, francesi; tuttavia va forse ridimensionato e riconsiderato questo rapporto, valutandolo in senso quasi esclusivamente psicologico. Sotto questo aspetto la sua influenza fu davvero fondamentale: il carattere burrascoso e fiero, stravolgente, la vita bohbémienne che aveva condotto attraverso l'Europa certamente scossero la natura borghese dei due ragazzi aprendogli orizzonti di libertà istintive, di culture eclettiche e internazionali. Alla loro pittura poté però infondere solamente un'analoga ma non precisata aspirazione (visto che le sue concrete conoscenze artistiche parigine e londinesi risalgono a periodi successivi), un desiderio acuto di vena fantastica e di intima poesia che era tipico del suo carattere. A riprova di ciò è il fatto che solo nel 1928-29 la loro pittura farà un balzo linguistico e qualitativo definitivo. Dalle lettere scritte a Mafai in quegli anni, traspare con evidenza il mondo visionario, onirico della Raphaël: "Una notte sognai che noi caminavamo insieme fra la chiarezza del sole e fiori. All'imbrunire diveni scuro, tempestoso, tutto era avveluppato nei nuovoli neri, neri. Nella confusione del improvviso cambiamento ti ho perso. Rimanei sola brancolando nell'oscurita arcana.
I miei singhiozzi si in mischiavano con i ululati del vento.
La mia voce lagrimosa ti chiavama, ma l'Eco la portava sui fiumi e rocce. Persi il mio equilibrio, e il vento mi sbatacchiò dalle rocce nella profondità del mare.
Mi svegliai spaventata, non potei prendere il sonno più e così rimanei pensando fino l'albo.
Essere d'una carretera un po mistica ho preso questo visione per un simbolo che ti ho veramente perduto".
Ancora, in una lettera pubblicata da M. Fagiolo e E. Coen, la Raphaël descrive un altro sogno, che sarà trascritto in pittura da Scipione solo nel 1929, nel quadro Risveglio della bionda sirena:"Tutto sembrava addormentato nel sonno profondo e misterioso come se fosse per la verga di una fata. La luna guardava ancora nel lago e sembrava più pallida di prima, meditativa e addolorata. Evidentemente il suo cuore era pieno di tristezza, piangeva con lacrime amare che andavano nel lago e facevano l'acqua spumeggiante rimbalzare subitamente io udii una voce femminile cantare. Era una voce bella e chiara e l'eco la portava per tutto. Ma ella cantava senza sentimento, cantava con cuore allegra e era contenta di se stessa. Le parole erano questi se io mi ricorda bene: Asciuga le lacrime non piangere più / Godi la vita! E bando al dolore! Felicità affanno, diletto e pena, / Tutti vengono dall'unica sorgente / L'autore è l'amore.
lo cercai per parecchie minuti di dove venisse quella voce, non molto profondo, ma simpatica. E dopo trascorso poco tempo vidi che era una sirena emergente dalle acque del lago di Perugia della belleza squisita, con una specchia in una mano e pettine nell'altra e mentre si specchiava si ravviandosi i bei riccioli d'oro, ammirava se stessa. La luna la guardava con disdegno e rispose "E' bene per te cantare così che hai il cuore allegro. Tu sei sempre nella profondità del mare, nella tua casa di madre perla di dove non vedi il mondo al di sopra. Ma io vedo tutto, vedo la vita nuda, realmente con le sue tragedie e commedie. I miei raggi come aghi affilati penetrano in tutti i luoghi più reconditi e conosce anche tutti i delitti più nascosti nel profondo dei cuori indegni. Ma perché perderei parole inutile con te senza essere compresa mai...".
Nonostante dunque lo spirito "selvaggio" e irruento di Antonietta, che subito affascina Scipione e Mafai, nel 1925 essi ancora si arrovellano senza molte prospettive tra una pittura "di genere" ("Dipingevo ogni tanto paesaggi, nature morte, qualche ritratto di amici, ma non pensavo che si potessero vendere" ricordava Mafai) e un'attività commerciale di manifesti e bozzetti decorativi, firmati BOMAF, dalle iniziali dei cognomi dei due artisti: "Decidemmo allora di tentare i rami dell'arte commerciale. Quadretti dl marine e frutta per la drogheria Senepa, figurini di mode per negozi di tessuti della periferia, per i sarti, reclames varie anche in serie e qui ripenso a certi cartoni ritagliati di un tremendo Mickev Mouse di cui dovemmo dipingere una cinquantina di copie... Le cose andavano maluccio; le nostre fatiche rendevano poco" . La loro vita è irregolare, sognano di trasferirsi a Cuba, ma un peggioramento della tubercolosi di Scipione pone fine al progetto, e questi deve recarsi in sanatorio per quasi un anno.
Nel 1926 la pittura di Mafai va lentamente delineandosi, fedele a un senso di primitivistica naïveté secondo cadenze assai prossime a quelle dei paesaggi di Virgilio Guidi, gravidi di una materia turgida e luminescente; la dipendenza della pittura dei due artisti, almeno fino al 1928, da quella del maestro già famoso, è sempre stata sottovalutata: eppure quelle colline a mammella, quelle case dai volumi pieni e deformati dalle pennellate esuberanti, gli stessi colori terrosi, ocra, verdi cupi lumeggiati da accensioni improvvise, tornano con evidenza nelle opere giovanili di entrambi". Altro referente fondamentale, ricordato da Sinisgalli, a proposito di Mafai . ma dimenticato dalla critica moderna, è quello di Carena: anche qui il colore spugnoso e luminoso, dai toni notturni eppure brillanti del pittore (maestro del già attivo gruppo dei giovani Cavalli, Capogrossi e Pirandello), diede un importante impulso alle ricerche di forma-colore soprattutto di Mafai.
"Questa mattina ho dipinto sulla composizione; mi piace lumeggiare il paesaggio al tramonto un po' fantasticamente e dare agli alberi, ai monti, alle valli, ad ogni cosa una loro propria vita sognante, quasi incorporea. lo sono per Stendhal che preferiva essere un sognatore a un uomo di spirito. Dopo tanto verificare, filosofare, storicizzare è così riposante abbandonarsi a ciò che può creare la nostra fantasia". Non si stenta a riconoscere, nelle lumeggiature "un pò fantastiche" descritte in questo brano del diario di Mafai dei 1926, l'eco degli incantati e corruschi paesaggi di Guidi, ma anche una già personale inclinazione all'interpretazione della natura in senso panico e drammatico, nostalgico ed intensamente poetico. E quella sensibilità tendente al morboso e :all'onirico che avevamo riscontrato nel carattere della Raphaël e che questa non aveva tardato a trasmettere all'amato compagno; lo spirito di un paio di brani del diario di quello stesso anno ci illuminano, in linee generali, su come egli avesse intimamente appreso e fatto sue quelle poetiche visionarie e brucianti:"... mi sentivo stanco e mi sono addormentato. Quando ho aperto gli occhi nella stanza non c'era più luce; soltanto dietro la finestra qualche lume vagava sulle case fatte ombra dalla sera.
Sono uscito tardi, dopo cena, per andare a un cinema.
Roma di notte è immensa. Un gatto nero scende lentamente la scalinata dell'Araceli. La chiesa medioevale vede di cattivo occhio qualche cosa aggirarsi tra i fili della sua barba orizzontale"; "Sono andato alla passeggiata delle terme di Caracalla.
La villa era tutta luccicante di sole.
Ho incontrato soltanto qualche vecchio.
Oggi sono ritornato allo stesso posto con Antoinette; ho parlato della necessità che l'artista ha certe volte di essere solo, di abbandonarsi ai capricci della propria sensibilità, di sentirsi uno davanti al mondo come una unità di misura.
Il mio pensiero in quei momenti andava lontano, abbracciava tutto il mondo.
Il sole dava le ultime luci e bruciava gli scheletri del Palatino e gli alberi di ruggine in un'unica fiammata.
I primi si aprivano qua e là come ombrelli, i cipressi come spine dolorose passeggiavano nel cielo. Certi campanili che spuntavano ogni tanto nella campagna attorno a via Appia erano gli ultimi ad ardere di questo saluto di Dio. Ma anche loro più tardi diventano ombre. Adesso l'aria è umida, certa nebbia fina fina si stende e si dilata come fiato; non c'è più nessuno, qualcuno che prima passava ora non si sente più.
Ritornammo che il prato era deserto e già il cancello della villa era chiuso".
 Quando Mafai e la Raphaël si trasferiscono nella casa di via Cavour con la figlia Miriam, nata nel febbraio del 1926, Scipione è ancora in sanatorio, ma la loro ricerca procede assidua:"Abitavamo a via Cavour, in un palazzo di stile umbertino che faceva angolo con la piazza che si chiama ora Corrado Ricci, proprio dietro la Suburra, con la vista sul Colosseo, i Fori. Ancora non c'erano state le demolizioni e Roma da quelle parti era stupenda, tutte piazzette, casette, e noi avevamo una casa all'ultimo piano con un terrazzo enorme, meraviglioso; dove mangiavamo, dipingevamo, chiacchieravamo, e di lì c'era quella veduta che faceva rimanere senza fiato".
Roma sta diventando per i due coniugi un tema esaltante per le loro fantasticherie, e va nascendo un amore per la pittura antica, soprattutto per il Greco, che trova le sue prime tracce in un passo del diario di Mafai: "Le due lunghe tele del Greco mi hanno entusiasmato: quel diluvio di luce, quell'esasperazione e nel colore e nel disegno rappresenta a perfezione lo spirito della controrifoma con la sua esaltazione e infallibilità del dogma cattolico. In sostanza, Greco rinnova il misticismo coloristico dei primitivi cristiani".
A queste idee mafaiane fa eco un breve scritto di Scipione sulla pittura del Greco, apparso postumo e senza data sulla rivista "Primato" nel dicembre 1942 e difficilmente collocabile cronologicamente: "... il fascino e l'influenza dell'arte del Greco su molta parte dell'arte moderna [...] è per ritrovare una spiritualità forte, vera, in senso assoluto di ogni tempo, che proprio mancava al principio del secolo. Cosa spiegabilissima, ricordando tutto: la strage positiva e materialista e razionale [...].
Per noi il Greco è un visionario. Con la sua pittura sconvolge le menti, le chiese si popolano di incubi religiosi, risolleva le immagini, e trasfigurandole, portandole su un piano irreale, confondendo i due elementi, dipingendo nel quadro tutto presenta e con la stessa intensità. Le sue figure sono fantasmi che si concretano con una realtà tattile terribile; le sue figure sono sottili maglie perché non finiscono. La bellezza intangibile dei personaggi divini si sforma, si corrompe, ad ammonire le genti: per dire loro che col malcostume stanno uccidendo la bellezza divina, e il dolore sofferto per l'umanità sfigura i loro visi".
Anche nei gusti pittorici il parallelismo dei due pittori è sensibile, medesime sono le influenze che subiscono. Nel 1927 Scipione torna finalmente dalla lunga degenza e si ricompone il sodalizio di vita e d'arte. Incominciano a frequentare insieme la biblioteca di Storia dell'Arte di Palazzo Venezia, introdotti da Antonino Santangelo, e qui scoprono la pittura antica, soprattutto attraverso le riproduzioni: amano Raffaello e Dosso Dossi, Velasquez e Gova; inoltre "Negli antichi ricercavamo certe nostre aspirazioni: per esempio uno spirito metafisico che andava fino al favoloso. Perciò gustavamo molto certi particolari del Parmigianino o di Bosch, dei Trecentisti minori, di Breughel e ne facevamo commenti", ricorderà più tardi Mafai. Sono anche i moderni che li interessano, e troviamo citati nei vari ricordi soprattutto i nomi di Chagall, Kokoschka, Picasso, De Chirico, la "scuola di Parigi". Ma questi artisti non dovevano essere ancora determinanti per le loro scelte, né ben chiari nelle loro cognizioni, se il 26 settembre 1928 Mafai annotava eccitato nel suo diario che è "stata un sorpresa trovare a C. di Fiori una riproduzione a colori di Rousseau il doganiere e di Derain. Ne ho avuto un'idea più precisa e completa". A quell'epoca il fatto di maggiore interesse per loro dovette invece essere la mostra di Capogrossi, Cavalli e di Di Cocco, tenutasi alla Pensione Dinesen nel maggio del 1927. Qui le aspirazioni dei tre giovani erano giunte ad esiti di singolare effetto cromatico cd espressivo, e ad un senso di misteriosa metafisica mutuata da Guieli e da De Chirico, da Ferrazzi e da Carena in ugual misura: le scene incantate e i paesaggi intellettualizzati, i ritratti misteriosi ed ambigui esposti alla Dinesen impressionarono certamente i visitatori (le firme di Mafai e Mazzacurati compaiono, come si è accennato nel precedente capitolo, nell'album dei visitatori). Già dal 1926 si era aggiunto al gruppo di amici "di via Cavour" il diciottenne Mazzacurati, che appena a Roma tenne lo studio per qualche tempo assieme a Di Cocco, a villa Strohl-Fern; egli vi era giunto per lavorare con Martini, e le cadenze sognanti dei personaggi dello scultore trevigiano costituirono, soprattutto per il Mafai dei pieni anni Trenta, ma anche per Scipione, un punto di riferimento di fondamentale importanza.
L'anno decisivo per la pittura dei due compagni fu invece il 1928, nel quale vanno maturandosi e delineandosi scelte stilistiche più autonome. Per Scipione sono importanti, nell'elaborazione dei suoi primi quadri (fino a quel momento aveva quasi esclusivamente disegnato) le figurine semplificate di Di Cocco come i linearisini di Picasso (vedi La Musa, esposto in mostra ), nei quali i colori sono ancora chiari e trasparenti; Mafai dà vita invece a paesaggi corruschi collocabili tra Guidi e Cavalli, a ritratti di presenza straordinaria, dagli occhi allungati e dagli sguardi acuti e misteriosi, analoghi a quelli di Antonietta del medesimo periodo: per entrambi il referente è il primitivismo ancestrale di Rousseau, che andavano scoprendo allora tramite le riproduzioni di Palazzo Venezia, ma caricato di un'ambiguità che troviamo precorsa nell'Autoritratto di Capogrossi del 1927, esposto alla Dinesen. Solo verso la fine dell'anno (o più probabilmente agli inizi del 1929), interviene a movimentare la materia quella "virulenza bacillare" di cui parlerà Longhi l'anno seguente; motivo tecnico tipico dell'istintiva e inaddomesticata pittura della Raphaël, quel modo filamentoso e spesso di stendere i colori, che in lei era espressione di inesperienza pittorica, di virulento furor privo di tecnica, diviene in Mafai cifra illusionistica per condurre l'immagine a una verità sorgiva, versata direttamente sulla tela dalla profondità dell'essere, quasi schernendo la mediazione di una mano che porta in sé il freno del mestiere e della ragione pittorica. Nella primavera del 1928 Mafai espone i suoi primi due quadri agli "Amatori e Cultori", Giovane e arancio e Case disabitate, quest'ultimo probabilmente da identificarsi col Paesaggio romano qui esposto. Un primitivismo alla Ceracchini è presente in queste volute semplificazioni di Mafai, così come nelle opere di Scipione del 1928 (Autoritratto, Leda col cigno), ed è infatti significativo che nel gennaio del 1929 entrambi espongano in una collettiva al "Convegno di Roma" (a Palazzo Doria), sotto la protezione di Ceracchini; assieme a loro, oltre al già affermato pittore, esponevano altri giovani: Di Cocco e Bandinelli ( che già avevano partecipato ad altre mostre, tra cui la I mostra del "Novecento italiano" del 1926), Mimmo Spadini, Vanuccini, Frateili, Fondi, Rousseau aleggiava, come scriveva Biancale a proposito di Ceracchini ", nelle opere di vari artisti della mostra; Scipione presentava un quadro "etrusco" e "misterioso" (C. Pavolini). mentre Mafai "si ricorda nelle vedute di città di Utrillo, di Varroquier, di Vlaminck, e nel ritratto di donna, ottimo come potenza plastica, di Derain". Corrado Pavolini individua bene la posizione, in fondo ancora a metà strada fra tradizione e avanguardia dei nostri giovani artisti, parlando di una "speciale situazione artistica dell'epoca nostra, nella quale l'avvicendarsi delle tendenze "avanguardistiche" non mira in fondo che al ritrovamento d'una semplicità tradizionale" . L'anno 1929 si apre così per i due amici indicando una pluralità di scelte ancora eclettica, decisamente francofila benché ancorata solidamente a tradizioni "plastiche" italiane, che cominciano a diventar personali incendiando passionalmente i colori, deformando sinuosamente le figure. Il vero battesimo di questa nuova tendenza romana è dato da Roberto Longhi, il quale recensendo la mostra del Sindacato Laziale (marzo-maggio), individua le nuove realizzazioni di Scipione, Mafai e della Raphaël indicandone le matrici espressioniste e francesi: "Rimangono le misture esplosive. Proprio sul confine di quella zona oscura e sconvolta dove un impressionismo decrepito si muta in allucinazione espressionista, in cabala e magia, stanno difatti i paesini sommossi e di virulenza bacillare del Mafai, la cui sovreccitata temperatura - quale si misurava anche meglio dalla mostra recente al "Convegno" di Roma - potrebbe inscriversi al nome di un Raoul Dufv nostro locale. Così come la pittura di Antoinette Raphaël, non tanto dal paesaggio qui contiguo a quelli del Mafai, quanto da altre cose che mi sono venute sott'occhio nel ragguagliarmi su questa, che, dal recapito, chiamerei "la scuola di via Cavour", potrebbe rivelare i vagiti o la rapida crescenza di una sorellina di latte dello Chagal; a conservar le debite distanze, s'intende. Un'arte eccentrica ed anarcoide che difficilmente potrebbe attecchire tra noi, ma che è pur un segno da notarsi, nel costume odierno".
 Longhi tratta solo con un accenno Scipione, allora ancora non perfettamente realizzato nello stile e nelle poetiche, e dedica un po' più di spazio alla Raphaël, pur tenendo "le debite distanze" rispetto alla sua arte in fondo debole e "d'ambiente". È invece Mafai che nel 1929 raggiunge per pruno la maturità visionaria e artistica, producendo, fino al 1931, le sue opere più dense e interessanti. Dopo un'altra esposizione collettiva, nel maggio, alla galleria di Bragaglia, Scipione e Mafai si isolano per lavorare da soli, entrambi in Ciociaria. Scipione raggiungere velocemente un'autonomia straordinaria, meditando brevemente sulle figure ferme e primitive della Raphaël, ma soprattutto su stimoli letterari, sciogliendo definitivamente la sua pittura a immagini surreali, a una tecnica liquida e suggestiva, scavalcando riferimenti pittorici e formali per concretizzare unicamente le sue fantasie baroccheggianti. Sinisgalli ricorda con precisione questa congiuntura poetico-letteraria: "Tra il '29 e il '30, i Carrai di Maldoror passavano per le mani degli amici e Ungaretti portava in giro il secondo volume degli scritti profetici di Blake, quei Carrai dell'Innocenza e dell'Esperienza, nei quali il grande visionario fulminava l'occhio di Dio nell'immagine della tigre incatenata dentro la sua perfetta simmetria. Furono anni ricchi: il Marchese Carlo Camillo Visconti Venosta concertava con i due amici un pellegrinaggio allo Speco cif Subiaco. Ungaretti scriveva gli Inni. ritrovava i suoi più forti accenti: l'immagine delle cicale irose (il silenzio), della sabbia deposta come un letto dal sangue (la morte), dell'ombra: notturna quanto più la luce ha forza; traduceva l'Anabasi di S. J. Perse e pubblicava su "Le roseau d'or" i tumultuosi versi a Caino. Poi ci fu la nostra amicizia per Ferruccio Blasi, un allievo di Bertoni che si era laureato con una tesi su Gongora. Scipione allora capì meglio il suo Greco e la Roma di Borromini".
Al ritorno a Roma, in autunno, è per Scipione l'epoca dei capolavori che lo consacrano, nella loro eccezionalità e libertà stilistica, la personalità artistica emergente di quegli anni: La piovra, Uccelli morti, Risveglio della bionda sirena, Cavallo infuriato. La sua pittura divenne per i letterati romani. un riferimento fondamentale, palesando una disinvolta e straordinaria interpretazione di espressionismo e di surrealismo.
Mafai fu forse inibito da tanta forza espressiva, da novità così drammatiche e vertiginose: la sua visione, che non voleva discostarsi dalla realtà (pur interpretata in senso fortemente espressivo), veniva messa in scacco dalle mortuarie fantasie del compagno. Mafai si recò dunque, all'inizio del 193,. a Parigi con la Raphaël, alla ricerca di nuovi stimoli: questa parentesi non fu per lui entusiasmante, la sua pittura però trovò con più definizione un registro di realtà appena alterata dalla poesia, avvicinandosi nei paesaggi parigini a De Pisis: personalmente caratterizzato da un senso delle immagini più incombente, da una pittura che va schiarendosi e soprattutto allontanandosi dal clima surrealista. del quale si dichiara insofferente in un articolo inviato all'"Italia letteraria" nel 1930, e che invece sta fecondando l'arte di Scipione ("Mafai vive a Parigi con Antonietta da un anno - è venuto per la mostra e fra giorni ripartirà - si è molto schiarito di colore ed è più semplice e immediato" scriveva Scipione a Mazzacurati il 5 dicembre 1930). II legame affettivo e di solidarietà permane intensissimo, ma c'è quasi un timore di lavorare accanto, di potersi influenzare, che vedrà i loro percorsi artistici separarsi sempre più. In particolar modo Mafai trascorre lunghi periodi del 1931 e del 1932 a Parigi, seguendo il travagliato rapporto d'amore con Antonietta Raphaël. I momenti di coesione tuttavia non mancano, e la loro consacrazione definitiva avviene con la mostra alla "Galleria di Roma" di Pier Maria Bardi, nel novembre del 1930. Oppo, Cardarelli, Ungarett, Falqu, Tavolini, Longhi e tutta l'intelligenza critica e letteraria ormai sostiene la loro pittura; tuttavia il confronto appare cruciale: Scipione geniale e visionario, Mafai che si inoltra sulla strada di un impressionismo psicologico certo meno pregnante, seppur non vacuo e ricco di ;recenti poetici. La traccia di questa discordanza è presente in un ricordo dello stesso Mafai, annotato nel suo diario: "Io portaí con me le pitture che avevo fatto a Parigi e mentre si aspettavano da me raaffinatezze, non avevo che da offrire loro problemi sociali e di costume. curiosità umane e racconti delle mie fatiche e non sapevo interessarli sui dadaismi e su nessuna curiosità pettegola "venne de paraitre".
I miei quadri anche delusero. Si aspettavano molto di più. La mia pittura si era diluita nell'atmosfera di Parigi. il museo si era depositato ed agli impasti grassi e tenebrosi erano subentrati interessi di luce, una disposizione più impressionistica e meno seicentesca. Forse avevo esagerato nel disciogliere eccessivamente e nel fare una vena di sentimentalismo angoscioso e rarefatto.
Si aspettavano da me qualcosa di più originale e maledetto, invece nulla di tutto questo.
Scipione aveva una serie di pitture importanti, ben incorniciate e verniciate e non c'è dubbio che fu la sua più bella esposizione. Sette grandi paesaggi, il ritratto della madre, la meretrice romana e gli uomini che si voltano. Avevamo da dirci molte cose e sentivamo che non tutte le pitture piacevano. Io facevo delle riserve e Scipione lo stesso e allora una sera entrammo in una bottiglieria insieme agli amici e ci scaraventammo addosso tutto quello che per delicatezza tenevamo nascosto dentro di noi. E fu molto. Fra noi c'era un'intesa, una lealtà per cui non potevamo sopportare il peso di reciproci giudizi e sentivamo il bisogno di svuotarci l'uno di faccia all'altro. Non avevamo mai peccato d'ipocrisia fra noi e fu così alla fine. Lì, tra i litri di vino, ci accusammo allegramente senza lasciarci residui nel cuore.
- I tuoi quadri si sono infiacchiti, annacquati. - La tua pittura è ancora troppo museo.
- La biacca non si deve usare: sporca i colori e tu ne fai un uso eccessivo.
- Non è vero. C'è bisogno respiro di aria di luce.
- Ma in quel modo tu perdi originalità. Non sei nemmeno europeo.
- Ma tu rischi di rimanere un prodotto locale. Il tuo barocchismo non ha più ragione d'essere. Insomma, ce ne dicemmo di tutti i colori, senza astio. Ridemmo molto e rimanemmo più amici di prima. Ci sentivamo più leggeri e ci potevamo guardare in faccia come l'acqua sorgente".
Scipione, nel febbraio-marzo del 1931, dopo aver visitato - e commentato - la prima Quadriennale romana, scriveva rivolgendosi all'amico Mazzacurati che "La necessità della rivista si va sempre più delineando. Con la quadriennale noi potremo impiantare delle questioni - da appassionare tutti. Tu non puoi immaginare come questa mostra - segna, indica che l'Italia non ha nulla, nemmeno un artista moderno! se si leva Martini"; e seguita: "Caro Mazzacurati - vieni presto a Roma - per la rivista avremo la collaborazione di Longhi, Ungaretti e tutti gli altri che vogliamo noi". L'intenzione di diffondere le loro idee tramite una nuova rivista, era un progetto che già dalla fine del 1930 aveva evidentemente preso corpo.
Nel giugno del 1931, data in cui l'auspicata pubblicazione vide la luce (il titolo "Fronte" fu preferito al più letterario "Porpora"), il rifiuto di teorie aprioristiche, di costruzioni intellettualistiche sovrapposte all'espressione artistica, contenuto nella nota introduttiva al primo numero di "Fronte" (una mezza pagina senza firma, scritta probabilmente da Marino Mazzacurati, direttore della rivista: "Del resto non crediamo si possano costringere serenamente dentro una teoria personalità artistiche di valore sicuro"), assume caratteri speciali di novità, di poetica: opponendosi alla crisi ideologica e stilistica, lo scetticismo dei nostri giovani artisti trova in una sorta di "pragmatismo poetico" il metodo saliente per realizzare un'arte che con la sola flagranza della creazione personale si ponesse a rinnovamento degli esautorati movimenti degli anni Dieci-Venti. La consapevolezza che ai "manifesti" e alle teorie astratte corrispondesse inevitabilmente un destino breve e senza decorsi, un esaurimento in sé, spinse dunque il giovane Mazzacurati, coadiuvato dai compagni di "via Cavour" Scipione e Mafai, a creare un "fronte" culturale nel cui crogiuolo fondessero non astratti presupposti, ma concrete proposte: non un "movimento" insomma, ma tana "tendenza".
La novità estetica principale del gruppo la possiamo ritrovare in un pensiero di Solmi che focalizza gli aspetti sclerotici dell'arte moderna", indicando i punti di quell'eccitazione passionale, di quel sapore di "pittura" ormai dimenticato e invece perseguitato come aspetto sublime dell'espressione: "In genere, la pittura moderna mi sembra mancare di sufficiente sensualità: è una pittura che sembra esista già nella mente prima di esser dipinta. E non intendo per sensualità pittorica ciò che s'intende comunemente, ossia la panica ed indigesta celebrazione della gioia e floridezza naturale: intendo il gusto diretto del colore e della forma, il senso della pressione delle dita sul pennello, del sorgere lento dell'immagine in una con le tinte e con le linee che la esprimono e la sostengono: senza di che un quadro non è che una vana figura riflessa in uno specchio. Aggirarsi in una mostra, oggi vuol dire, nella maggior parte dei casi, sorprendere diverse sensazioni fissate ciascuna ad un diverso grado di decomposizione intellettuale. Chi le lascia marcire in cantina, chi disseccare come mummie, chi le mette sotto vetro, chi addirittura sotto spirito. La tela è perfettamente liscia e non odora neppure di vernice".
E evidente che queste affermazioni non aprono la strada a un'espressività disimpegnata, naïve e spontaneistica, che invece si auspica gravida delle esperienze personali, culturali, delle necessità poetiche e non induttile, intellettualistiche dell'artista: "II nostro pensiero più profondo nasce a volte improvvisamente dal passivo stagnare della nostra vita, come la ninfea dal fango. Nel brulicare d'infinite sciocchezze e vanità, nell'inconsistente polverio che noi chiamiamo "vita interiore", è a volte come un lampo momentaneo: le parole insulse e meccaniche, le incerte visioni corporee che il flutto limoso traeva con sé s'aggrumano e s'organizzano, prendono figura: è il mistero carnale d'ogni creazione, la luce che albeggia sul caos". Un altro aspetto singolare, assai significativo e tutto intrinseco alla struttura della rivista, è riscontrabile nel fatto che in una pubblicazione "d'arte e letteratura" (diretta da un artista, pittore e scultore), non si scrive torrenzialmente d'arte, e quasi polemicamente se ne scriva pochissimo (nel primo numero infatti solo tre pezzi su tredici trattano argomenti d'arte, e in termini molto lati; nel secondo addirittura nessuno). Precisa versione pratica delle idee del gruppo, questo atteggiamento nasce da quella disposizione particolare che nella Roma degli anni Venti-Trenta faceva scorrere come uno stesso sangue nelle vene di letterati, critici e artisti, ispirava uno stesso anelito verso un'arte intesa come religione da officiare, ermetica vorremmo dire con allusione precisa ma non certo riassuntiva; così che ovvIamente l'intervento del pittore o dello scultore si autolimitava a dipingere o a scolpire, lasciando ai letterati e ai critici il dominio della pagina scritta, che in maniera non differente da un quadro avrebbe raccontato analoghi percorsi dello spirito. Dunque, nella rivista, non si celia sulla decadenza e sulla desiderata rinascita e rinnovamento dell'arte, benché nei promotori ve ne sia la precisa coscienza: si presentano invece analisi letterarie, si pubblicano racconti e poesie, si riproducono disegni e quadri lasciando loro l'eloquenza pura dell'opera d'arte.
Quando Scipione muore, il 9 novembre 1933, dopo aver trascorso lunghi periodi in sanatorio, è ormai divenuto un mito, sia per la sua pittura folgorante, che ha prodotto capolavori quali il Cardinal Decano, la Cortigiana romana, gli Uomini che si voltano, l'Apocalisse, Piazza Navona (tutti del 1930), che per la parabola disgregante e affascinante, maudit, della sua breve esistenza. Là sua attività dal 1931 al 1933 fu necessariamente meno intensa, impedita dall'aggravarsi della malattia, ma quei due soli anni di forsennato e misterioso lavoro hanno certamente lasciato una traccia indelebile nella pittura romana. Mafai nel 1932, ormai sganciato dalle influenze visionarie dell'amico (che ancora nel 1931 erano singolarmente operanti pur nello "schiarimento" pittorico - cfr. Bambine esposto in mostra), persegue definitivamente quel senso della realtà intensamente marcato dall'impressione psicologica, animato da una luce che ispessisce le paste pittoriche e le giustappone tonalmente. In questo senso, come si è avuto modo di accennare nel precedente capitolo, l'esperienza del tonalismo di Capogrossi e Cavalli, con le loro composizioni di ampio respiro architettonico, fecondò e favorì la messa a punto del nuovo stile mafaiano (Donne che stendono i panni, 1933; Lezione di piano 1935; ecc.). La lezione fu appresa e utilizzata in senso assolutamente personale, immersa in quel mondo antisurreale e volutamente schivo di costruzioni intellettualistiche che facilitava l'espressione della vena poetica, immanente alle cose vissute e viste, di Mafai. Il suo mondo rimase per certi aspetti limitato da questo intimismo che lo stesso Scipione leggeva come "annacquato", incapace ali assurgere a un livello "europeo"; tuttavia l'eredità morale di Scipione che egli aveva raccolto, e il lirismo indubbio della stia produzione degli anni Trenta ne fece uno dei fondamentali punti di riferimento per i giovanissimi esordienti romani 3. Pirandello, Melli. Cagli e la "Cometa", il realismo neo-romantico: conclusioni
II clima determinato dai due sodalizi di "via Cavour" e dell'écolc de Rome trovò nel corso degli anni Trenta un consenso straordinario di artisti, dando vita a un'affascinante e complessa elaborazione delle loro poetiche, a una koiné artistica tra le più interessanti e caratterizzate, autonome, dell'arte italiana del secolo. Per ragioni di spazio, poiché si è preferito in questa sede sottolineare il bipolarismo essenziale che determinò questa stagione, si accennerà solo brevemente a questi sviluppi, peraltro documentati attraverso capolavori d'eccezione nella mostra, e scanditi con chiarezza nella Cronologia critica in catalogo. E importante tuttavia mettere in luce alcuni episodi salienti di quest'avventura artistica, nella quale assume particolare rilievo la personalità isolata e straordinaria di Pirandello, che seguì sempre una strada tangente a quella dei due gruppi, ma caratterizzata da un'espressione assolutamente autonoma. Sugli esordi romani e parigini si è già accennato, ma la maturità più complessa, elaborata nel corso degli anni Trenta, va qui ricordata nell'eccezionalità dei risultati. Egli, dopo aver contribuito notevolmente all'elaborazione del tonalismo, ne diede la sua soluzione materica e visionaria, spiritata e inquietante, attraverso figure spatolate, dalle posizioni quotidiane ma bloccate in composizioni ritmiche e innaturali, dominate da un'ansia immanente, conturbante e surreale. Del tutto sganciato dal surrealismo onirico scipionesco, cui tavolta si è voluta ricondurre, l'arte pirandelliana compone attraverso un'indagine dello spazio, distorto e sempre composto su schemi diagonali e instabili, quei vuoti che la coscienza non riesce a colmare nel suo rapporto complesso con la realtà, restituendo senza retorica, attraverso una materia scabra e allo stesso tempo sontuosa, una condizione umana dolorosa, di straordinaria forza spirituale.
Altra personalità significativa fu quella di Melli, sodale per un certo periodo del gruppo di Cagli, Capogrossi e Cavalli, ma anch'egli orientato su un versante isolato, prevalentemente formale, del tonalismo. La sua formazione secessionista, l'adesione a "Valori Plastici", gli aveva istallato un senso della forma e della composizione dominante. Così per lui il soggetto del quadro, che negli amici dell'école de Rome aveva un interesse mitico ed generico, non riveste alcuna importanza: le sue opere sono composizioni armoniche e complesse di tonalità ponderatissime, e i temi sono quasi esclusivamente ritratti della moglie e nature morte. Una visionarietà di ordine esclusivamente eromatico dunque, rende le sue opere capolavori di formalismo lucido e raffinatissimo.
Se dunque queste due personalità d'eccezione progredirono in direzioni solitarie, senza determinare momenti dl aggregazione particolare, Cagli rivestì invece un ruolo fondamentale per il clima romano della seconda metà degli anni Trenta. Staccatosi ben presto dal sodalizio con Cavalli e Capogrossi per motivi personali (e, pare, politici), egli tuttavia attinse avidamente da loro il gusto per una pittura di toni sottili giustapposti, movimentandola però con un furor barocco di matrice decisamente scipionesca. Versatile e abilissimo nelle tecniche pittoriche, praticò con disinvoltura la pittura murale e l'encausto, assorbì stimoli da Picasso e dalla pittura pompeiana, con un eclettismo culturale vivacissimo ed intelligente. Dal 1935 contribuì a dirigere, assieme a De Libero, la galleria della Cometa (il cui clima è assai ben descritto da De Libero in un brano riportato nella Cronologia ), nella quale esposero tutti i maggiori artisti romani dell'epoca, salvo solaniente, anche qui per ragioni personali, Cavalli e Fazzini. Molti dei giovani che iniziavano la loro attività alla metà degli anni Trenta ebbero in lui un punto di riferimento non solo culturale ma anche formale: Afro soprattutto, suo pupillo, utilizzò fino ai primi anni Quaranta una tecnica direttamente mutuata dalle liquide e piatte tonalità di Cagli, iniettate di un barocchismo intellettuale che si condensa talvolta in espressionismo edonistico ed elegante. Mirko traduce in sculture sinuose le creature mitiche e intense di Cagli; ancora Guttuso, nei quadri tra il 1935 e il 1937, risente forteniente delle stesure e delle composizioni cagliesche; anche Leoncillo, pur nella sua suggestiva plastica eromatica, così singolare ed originale, mutua molte cadenze dagli aspetti più barocchi ed espressionisti dell'artista. Cagli con la Cometa divennero insomma il fulcro di una vivacissima situazione romana, nella quale convergevano stimoli internazionali e in cui si formavano le generazioni ancor più giovani: Scialoja e Stradone mutuarono l'interesse per gli espressionisti francesi, Soutine soprattutto, ma anche per Ensor e Kokoschka, proprio nel clima della Cometa, dove aveva esposto le sue opere tormentate anche Carlo Levi, nel 1937.
Un percorso dal tonalismo capogrossiano al barocchismo espressionista lo compì Gentilini, che nonostante alcune suggestive realizzazioni rimase un personaggio di complemento nell'ambiente romano.
Altro termine espressivo della Roma artistica verso la fine degli anni Trenta fu quello secentista, di un nuovo realismo, presentatosi compiutamente con una mostra di gruppo alla Galleria di Roma, nel 1940. Guttuso, Guzzi, Montanarini, Tamburi, Ziveri e Fazzini si riunirono per dar voce a una versione originale ed inedita dell'espressione pittorica romana, basandola sulla commistione della realtà poeticizzata e surriscaldata di Mafai, e di quell'espressionismo di cui la Cometa era sostenitrice.

 
Una pittura scura, secentesca, materica, accesa di luci e pregna di umori. La passione "secentista" nacque anche dal contributo intellettuale e critico di Virgilio Guzzi, che presentò alla Galleria di Roma la mostra; fin dal 1937 egli aveva avuto modo di sperimentarla nella sua pittura, creando figure dagli incarnati caldi e chiaroscurati, che si evolveranno alla fine del decennio in una tecnica materica e densa, che scava nei soggetti alla ricerca di realtà intime, esistenziali. Quasi contemporaneamente, anche il suo amico Ziveri procedette in questo senso, inventando torbide fantasie barocche, gravide di carnalità, suggestive evocazioni di bordelli e di scene popolari; la loro passione per la pittura "antica" contagiò molti loro coetanei, tra cui Guttuso, che ebbe modo di esprimere la sua poetica di realismo attraverso interpretazioni rembrandiane quasi letterali, per orientarsi contemporaneamente ad una pittura pastosa e tesa, cromaticamente brillante, attraverso la quale realizza definitivamente il suo stile maturo di realismo espressivo. L'amicizia di Ziveri e Fazzini, vero e proprio sodalizio cui in seguito si unì Katy Castellucci (squisita e notevolissima pittrice), risaliva agli anni Venti. Ziveri e la Castellucci espressero fino al 1937 un tonalismo passionale, dipendente da Cavalli e Capogrossi ma filtrato attraverso Scipione e il Mafaipiù visionario, così come fece un altro loro compagno, il pittore-letterario Guglielmo Janni, sottile e fragile armonizzatore d'impasti tonali, regista di scene dal clima rarefatto e suggestivo. Solida tempra di scultore ebbe Pericle Fazzini, animato da un senso di primitivismo selvaggio, miracolosamente controllato da un'abilità formale straordinaria, che tende le sue figure in pose complesse e guizzanti, armonicamente composte.
Anche la Raphaël, tornata da Parigi e Londra verso la metà degli anni Trenta, dedica quasi esclusivamente alla scultura: vi trasferisce il medesimo stile anarchico e primitico che aveva caratterizzato le sue prime pitture, legandolo però strettamente alle suggestioni per le forti semplificazioni di Epstein, cui era stata vicina nel soggiorno londinese; le sue sculture comparvero però assai raramente nell'ambito delle esposizioni romane dell'epoca.
Nell'alternarsi di queste tendenze molteplici; negli scambi continui che avvenivano tra artisti spesso così differenti ma animati da un simile anelito alla creazione nuova, alla concretizzazione dello spirito stesso della città nella quale vivevano, la guerra interviene come una cesura netta, inesorabile.
Il dopoguerra vedrà spezzate queste ricerche disperate eppure armoniche, togliendo giustificazione e pregnanza a una lingua pittorica così elaborata e ricca. Tutti questi artisti subiranno momenti di crisi anche drammatica, ma molti di loro troveranno la forza per continuare, in linguaggi diversi, una stessa ricerca di colori e di forme, di espressione e di gesto.
 




 
 
 

 


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