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A Roma, alle Scuderie Papali, la mostra “Velázquez, Bernini, Luca Giordano. Le corti del Barocco
TUTTE LE MOSTRE » Mostre in Italia (2004)

 
ROMA - Torna a spirare il vento del Bernini su Roma, città già plasmata e piena di sculture, monumenti, fontane, tombe, cappelle, chiese, palazzi del regista del Barocco. Può ancora capitare di scoprire in uno busto di marmo attribuito ad un Rocco Papaleo un’opera autografa del Bernini del 1679. Un monumentale busto del Cristo Salvatore alto e largo più di un metro, ancora più emozionante perché ultima opera di Gian Lorenzo che aveva superato gli 80 anni e morirà a 82. Era "buttato" in un androne angusto di un convento. Un convento non in cima ad una montagna, ma a Roma, appena fuori le mura serviane, il convento della basilica di San Sebastiano lungo l’Appia Antica.
Può ancora capitare che un monumento famosissimo e studiato come La fontana dei Fiumi a Piazza Navona, riservi delle grosse sorprese. Per esempio che il progetto presentato dal Bernini al papa proponeva con tutta probabilità una fontana non di marmo e travertino come è, ma statue di bronzo e una struttura dello stesso metallo per sostenere l’obelisco che poggia sul vuoto, la cavità fra le rocce. Lo si è capito dal modello in terracotta e legno presentato a Innocenzo X per ottenere il contratto (a scapito soprattutto del Borromini) e scoperto in una collezione privata romana. Il modello ha una base in proporzione molto più ristretta, tale che non avrebbe potuto sostenere l’obelisco se la struttura fosse stata di pietra, tracce di doratura sulle figure che non avrebbe senso sul marmo e tracce blu-verdastre sull’acqua, plasmata nella terracotta, per simulare una vasca metallica. E anche qui un aspetto che trascende la testimonianza artistica. Sulla creta del modello, che è alto quasi due metri ed ha una base di uno, in particolare sul basamento, sono state scoperte numerose impronte digitali che non possono non essere quelle del Bernini in un modello così importante. Perché torna a spirare il vento del Bernini? Perché Gian Lorenzo è uno dei protagonisti, meglio primus inter pares, della mostra Velázquez, Bernini, Luca Giordano. Le corti del Barocco in programma dal 13 febbraio al 2 maggio alle Scuderie del Quirinale. La mostra proviene dal Palazzo Reale di Madrid e di Aranquez dove è terminata l’11 gennaio, ma il busto del Salvatore e il modello ufficiale di presentazione della sono due delle novità della tappa romana (novità assolute perché presentate per la prima volta al pubblico) a cui si è aggiunta una sezione dedicata all’ultimo Bernini che ha apportato altre novità. Questa sezione è a cura di Claudio Strinati, soprintendente del polo speciale museale di Roma, con la collaborazione di Francesco Petrucci, conservatore di Palazzo Chigi ad Ariccia, altra opera del Bernini. Curatore generale è Fernando Checa Cremades già direttore del Prado (catalogo Skira). È lui a spiegare il senso della mostra puntata sulle corti europee nella seconda metà del Seicento. Non una rassegna da un punto di vista storico delle varie corti. Non una galleria iconografica di personaggi, ma l’ approfondimento dei dibattiti artistici più significativi che si sono svolti alla corte papale di Roma con Innocenzo X Pamphilj e Alessandro VII Chigi, alle corti asburgiche di Madrid e Vienna con Filippo IV e Carlo II, di Versailles con Luigi XIV. Confronti e interferenze reciproche nel quale agivano modelli diversi, ma anche un linguaggio artistico in buona parte comune. Convivevano vari sistemi di organizzazione delle arti, vari modi di rappresentare il potere, ma anche elementi comuni come il linguaggio dell’allegoria, l’idea delle arti visive integrate, l’apogeo dei generi come il ritratto equestre, il busto o la medaglia, e altri. Tutti temi dominati dalla categoria essenziale del gusto. Poiche l’ala del Barocco ha battuto su tutti i tipi di arti e di manufatti artistici, le 174 opere della mostra sono rappresentate da dipinti (57), sculture e bronzetti (17), terrecotte e terrecotte-legno, incisioni e stampe (30), disegni (16), medaglie d’oro e argento (35), gioielli e cammei, arazzi, arredi (3), libri, fucili. Fra i dipinti un terzo (18) sono studi e bozzetti, importanti, ma da specialisti per saperne di più sulla nascita di un’opera, suo sviluppo e cambiamento delle opere finali. Gli organizzatori hanno abbondato in medaglie, genere artistico particolarissimo, importante per i momenti storici illustrati, ma destinato a visitatori molto pazienti e con molto tempo a disposizione (come lo è tutta la mostra). La mostra arriva dalla Spagna, ma non è un trasferimento puro e semplice perché oltre il 40 per cento (70) di opere e oggetti è nuovo per la sede italiana. È Bernini che riserva le maggiori novità a cominciare dal busto del Salvatore e dal modello ufficiale di presentazione della Fontana dei Fiumi . È stato lo scomparso Maurizio Fagiolo Dell’Arco, insieme a Petrucci, ad attribuire al maestro il busto del Salvatore la cui autografia è stata riconosciuta anche da altri specialisti del Barocco. Le dimensioni del busto coincidono con quelle riportate nell’inventario Odescalchi del 1713. Come è tipico del Bernini, il marmo viene trattato in maniera diversa nelle varie parti.
Spiega Petrucci: "Bernini cerca di perseguire effetti di intensa modulazione chiaroscurale e di pittoricismo, controllando le rifrazioni della luce sulla superficie della pietra tramite diverse finiture".
La veste è perfettamente levigata e lucida per suggerire l’effetto di raso o seta. Il volto e le mani hanno una levigatura opaca. La fluente capigliatura, con l’attorcigliarsi dei boccoli e riccioli, è trattata a scalpello e con solchi paralleli a gradina, ed è ancora più sottotono. La mano benedicente è ingigantita dalla visione frontale, dal basso, e secondo Petrucci è praticamente identica all’ultimo ritratto eseguito dal Bernini, quello di Clemente X, l’ottavo papa da lui servito. In mostra i visitatori potranno fare il confronto fra il Salvatore riscoperto e il Salvatore dalla cattedrale francese di Sées, molto più piccolo, di notevole qualità, ma non all’altezza del Bernini e considerato da Petrucci una copia francese. Dovrà essere rivisto anche il busto di Norfolk in Virginia che molti considerano l’originale. Il modello ufficiale della fontana di Piazza Navona è stato scoperto in una collezione privata romana, dei discendenti del Bernini in linea femminile. In mostra è accompagnato da altri modelli o bozzetti (alcuni nuovi per la mostra romana). In terracotta, in bronzo dorato. Da un bozzetto per un leone e da un dipinto-modello per un nudo. Il Nilo si riconosceva dalla sfinge mentre ora ha la testa coperta da un panno per ricordare le sue sorgenti allora sconosciute. Era per questo e non per non vedere la facciata di Santa Agnese in Agone opera del concorrente Borromini, che è davanti alla fontana, come narra una leggenda secolare. Il Rio della Plata era un selvaggio vestito di piume, il Gange portava un cesto di frutta e il Danubio l’arma papale. Gli stemmi erano quattro (e non due come ora). Un disegno a sanguigna, dalla collezione di Maurizio Marini, lo specialista del Caravaggio, è uno studio per l’angelo di sinistra della Cattedra di San Pietro. Negli ultimi anni di vita - osserva Francesco Petrucci - Bernini si concentrò sul sacrificio estremo che redime, fece per sé opere di preghiera e di meditazione mistica. Come la terracotta di 32 centimetri del Christo Ligato, il dipinto del Christus Patiens colto dopo la flagellazione e prima del calvario. Il manto di un colore rosso cupo e nello stesso tempo luminoso che gli era stato buttato sulle spalle per scherno, è caduto di lato. Cristo è seduto nudo. Nella massa scura si intuisce il viso di una persona ansimante. La scena è chiusa da un pesante drappo rosso fra le ombre, una specie di sipario che sta per alzarsi sull’atto finale. Il dipinto, ritrovato da poco in una collezione privata veneziana, fu lasciato per testamento a Innocenzo XI. Come è una recente scoperta, nella Galleria nazionale d’arte antica di Trieste, una tavola di 53 per 41 centimetri, un Cristo deposto riconosciuto da Fabio Benedettucci. Petrucci lo definisce nudo e crudo come un’opera espressionista del Novecento. Un Cristo di verismo impudico e spregiudicato, al limite dell’irriverente, come solo uno spirito di grande religiosità vissuta e assimilata nel profondo poteva esternare. Un pezzo di realismo ottocentesco alla Courbet, ma sublimato. Il dramma è giunto al culmine. Ecco il grande Crocifisso di Cristo in bronzo donato da Innocenzo X a Filippo IV. Viene dall’Escurial di Madrid perché era stato collocato nella cappella delle tombe dei re. Ancora, un piccolo bronzo dorato, Cristo morto coronato di spine in collaborazione con Ercole Ferrata che già aveva plasmato i Crocifissi ideati da Gian Lorenzo per gli altari della basilica vaticana. L’ultima visione mistica del Cristo che Bernini voleva prima di addormentarsi è "una delle composizioni più inquietanti e geniali", la famosa iconografia del Sanguis Christi. Il Cristo crocifisso dalle cui mani sgorga un mare di sangue per lavare i peccati del mondo mentre dal costato esce un doppio getto di acqua e di sangue, il primo per l’umanità il secondo per i martiri. Si tratta di una tela del Borgognone (Guglielmo Cortese) ispirata ad un disegno del maestro e che era collocata a capo del letto. Di quel soggetto furono fatte repliche e secondo Petrucci in mostra, solo a Roma, c’è la versione più bella, probabilmente proprio quella posseduta dal Bernini proveniente da una famiglia genovese imparentata con gli eredi. Considerando i debiti che la Spagna, proprio Filippo IV, ha verso l’Italia per la formazione delle sue collezioni, i calchi che fece fare dei capolavori classici per il decoro dei palazzi (tutto attraverso Velázquez mandato con questa missione in Italia nel 1629) e i debiti artistici dello stesso pittore venuto due volte a Roma, forse i loro rappresentati moderni avrebbero potuto essere più generosi e dare più nerbo alla mostra. In fin dei conti Velázquez è il meglio rappresentato al Prado insieme a El Greco. Di Velázquez ci sono appena cinque dipinti (più uno attribuito) di cui due sono varianti di opere già presentate a Roma nel 2001. La ridotta soddisfazione è che gli altri tre sono presenti solo a Roma. Sono simboli della corte di Filippo IV tranne quello attribuito (un autoritratto dagli Uffizi) che illustra i sistemi artistici del Barocco e i linguaggi del potere.
 
Il ritratto in piedi dell’ Infanta Margherita in abito rosa (dal Kunsthistorisches museum di Vienna) è una versione con alcune varianti (nell’espressione, nei gioielli sul petto, nel movimento delle dita della mano destra, nei toni dell’abito, nella mancanza del vaso di fiori sulla tavola) di un soggetto dipinto da Velázquez sette volte, già presente nella precedente mostra romana, ma dalle superiori, eccezionali qualità a cominciare dalle pennellate più fluide. Il viso dell’infanta viene giudicato serio, addirittura triste. Forse una premonizione. A otto anni Margherita divenne la sposa promessa dell’imperatore d’Austria Leopoldo e a 12 anni si sposò per procura. A 16 ebbe il primo bambino e a 22 morì mentre era alla settima gravidanza. Amen. Questa era la vita invidiata di una imperatrice asburgica. Anche il grande ritratto in piedi (altezza 2,34 per 1,31 metri) di Marianna d’Austria (dal Prado) è una versione di un’opera presentata nella mostra del 2001. Il problema dei prototipi, repliche e copie dei ritratti per mano di Velázquez è quanto mai aperto considerando le pressioni e le richieste della corte che l’artista doveva soddisfare. Nuovo per l’Italia il ritratto a mezzo busto di Enrico IV dalla National Gallery di Londra. Il vecchio re di Spagna, capelli scolpiti, dall’ "aspetto setoso grazie a pennellate leggere e quasi trasparenti", baffi pronunciati ricurvi all’insù, ha un vestito nero opaco con una sfilza di bottoni d’oro e qualcosa d’oro anche sulle maniche a sbuffo. Dal collo, stretto in una gorgiera inamidata con le alette, dipinta con "pennellate ampie" scende una catena d’oro con il "Toson d’oro". Non lasciatevi sfuggire come Velázquez ha dipinto la catena "con vibranti tocchi di colore, che hanno lasciato alcune gocce di pigmento sulla superficie della tela, allo scopo di produrre l’effetto scintillante del metallo in penombra". Nuovi per l’Italia anche i magnifici ritratti dei due buffoni di corte "El Primo" e "El Ingles". Vengono da una parete del Prado che è stata definita "il polittico dei mostri" perché riunisce altri ritratti di buffoni, nanerottoli, considerati tarati nel fisico e nella mente. El buffon Sebastian de Morra È stato notato che Velázquez accordava al proprio lavoro la stessa importanza quale che fosse lo status sociale dei suoi modelli. Oppure che esistono concordanze di impostazione fra questi ritratti di buffoni e quelli della famiglia reale e dei nobili degli anni Venti del Seicento. Forse come segno di differenziazione, nei ritratti dei buffoni la figura appare rimpicciolita rispetto all’ambiente. Quanto a "El Primo" (Don Diego de Acedo, ma il "Don" è solo una presa in giro in questi personaggi che ad ogni modo venivano trattati lautamente) e al suo cappellone obliquo, è stata rilevata una chiara somiglianza con uno dei soldati che fanno da paceri nella Rissa tra soldati presso l’ambasciata di Spagna, quadro dipinto da Velázquez a Roma nel 1630 e che ora fa parte della collezione Pallavicini (nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi di fronte alle Scuderie del Quirinale, al di là della strada). Il terzo protagonista della mostra, Luca Giordano, illustra le corti asburgiche di Madrid e Vienna, con quattro grandi tele (due non nuove per l’Italia) e un bozzetto gigante (ugualmente già presentato) che si riferiscono tutte a dipinti fatti per la Spagna e un autoritratto proveniente dagli Uffizi. Quando Luca arrivò a Madrid nel 1692 fu preceduto da una fama ormai europea e da una serie notevole di dipinti per committenti spagnoli. Ma certamente "la straordinaria fecondità, la capacità inventiva e la rapidità ed efficacia della sua tecnica", sperimentate in presa diretta, oltre a suscitare invidie e maldicenze degli artisti indigeni, dovettero ancora più sorprendere, meravigliare e dare origine a vere e proprie leggende. Come quella che avrebbe dipinto in 24 ore il San Michele  e che Claudio Coello, allora "pittore da camera" del re, non essendoci riuscito nello stesso tempo, morì di crepacuore. In realtà il San Michele fu dipinto da Luca in più di venti giorni e non ci fu alcuna gara con Coello. È anche vero che Coello (presente in mostra) aveva fama di "un carattere corrotto e inaccessibile se non addirittura invidioso" e molti ritennero che la sua morte nel 1693 fosse stata causata dall’arrivo di Luca. I due dipinti già noti (presentati nella grande monografica di Luca Giordano a Napoli nel 2001) sono Il ratto delle sabine e Apollo e Marsia. Il primo è in generale un soggetto di enorme fortuna per i valori simbolici e per la scena stessa e anche Luca (e la bottega) ne ha fatte numerose repliche. Bellissimo il paesaggio al crepuscolo che fa da sfondo. Nel secondo, spicca la scena raccapricciante del dio che, serafico, ha cominciato a scuoiare il satiro, con la mano sinistra legata che conserva la pelle e il braccio portato alla carne viva. Mentre attorno sono i colori delicati dei panneggi molto mossi, dei capelli del dio, del cielo, dell’albero. Il dipinto faceva da pendant nel Palazzo dell’Escorial alla terza opera di Luca in mostra, Minerva e Aracne, altro esempio di punizione di coloro che sfidano gli dei (e per conseguenza i re). La quarta opera è di tutt’altro argomento, Riposo nella fuga in Egitto. Tutte e quattro le opere provengono dal "Patrimonio Nacional" di Madrid. Il grande bozzetto (152 per 79 centimetri) è un monocromo seppia, fatto per il gigantesco affresco del soffitto della "Grande sacrestia" della cattedrale di Toledo commissionato da Carlo II. Rappresenta la visione di Sant’Ildefonso a cui nella notte del 18 dicembre 666, festa dell’Immacolata Concezione, apparve la Madonna in una gloria di angeli e gli porse una casula. È stato presentato nella stessa mostra napoletana. I tre giganti non sono soli. In mostra ci sono Algardi, l’ "altra faccia del Barocco", con il notissimo busto-modello in terracotta dipinta di bianco, di un Innocenzo X quasi beffardo. Ercole Ferrata con un bassorilievo in argento-bronzo-marmo tratto dal celebre, ultimo altare inserito a San Pietro opera dell’Algardi, con Leone Magno e l’apparizione di San Pietro e San Paolo armati di spade che fermano Attila. Giovan Battista Gaulli (il Baciccio), il dominatore degli affreschi del Gesù, è rappresentato dai ritratti di Clemente IX e del maestro Bernini, e da due bozzetti per gli affreschi pieni di azzurri dei pennacchi di Sant’Agnese in Agone. Carlo Maratti (se Bernini lavorò per otto papi il marchigiano ne servì sette, padrone incontrastato e instancabile del mercato pittorico romano dopo la morte di Gian Lorenzo) con tre enormi bozzetti di quasi due metri per 80 centimetri del Trionfo della Clemenza che affresca la volta di un salone di Palazzo Altieri a Roma. Charles Le Brun, il principale traduttore pittorico della Francia trionfante di Luigi XIV, con il dipinto del Dio in gloria, un bozzetto e un paio di libri incisi da altri. Juan Bautista Martinez del Mazo (genero di Velázquez che a volte migliorava i suoi dipinti) con un ritratto dell’infanta Margherita da cui capiremo se l’infanta stava meglio in abito rosa (del Velázquez) o abito verde come in questo dipinto. Claudio Coello con il grande, bellissimo ritratto in piedi di Donna Teresa Francisca Mudarra, severa dama dell’epoca di Carlo II (visto a Roma nella mostra del ’91 dei capolavori del Museo di Bilbao). L’unico ad avere una rappresentanza consistente (sette dipinti e un disegno) è Carreño de Miranda, allievo del Velázquez e considerato il più importante esponente, dopo di lui, della Scuola di Madrid.
In mostra ha sei ritratti, il genere per cui è più famoso per resa fisiognomica e qualità tecniche, di Carlo II, Marianna d’Austria, di personaggi delle corti di Madrid e Vienna. Quattro dipinti sono una novità per la mostra di Roma.



Notizie utili - Velázquez, Bernini, Luca Giordano. Le corti del Barocco. Dal 13 febbraio al 2 maggio. Roma. Scuderie del Quirinale, via XXIV maggio. A cura di Fernando Checa Cremades. Commissario per la sede di Roma Claudio Strinati, soprintendente speciale per il polo museale romano; in collaborazione con Francesco Petrucci, conservatore del Palazzo Chigi in Ariccia. Catalogo Skira. Organizzata da Azienda speciale Palaexpo - Scuderie del Quirinale, e Società statale per l’azione culturale all’estero della Spagna, in collaborazione con la soprintendenza, il Palazzo Chigi in Ariccia e il “Patrimonio Nacional”.
Orari. Da domenica a giovedì 10 - 20; venerdì e sabato 10 - 22,30. Ingresso fino a un’ora prima della chiusura.
Biglietto intero 9 euro, ridotto 6. Riduzioni e visite guidate per gruppi e scolaresche con prenotazione obbligatoria. Audioguida italiano e inglese (singola 4 euro; doppia 6). Visite guidate individuali in italiano sabato e domenica (10,30/12/16,30/18 costo 4 euro).
Informazioni 06-696270 www.scuderiequirinale.it; per prenotazioni, visite guidate e laboratorio d’arte 06-39967500; www.pierreci.it; per approfondimenti sul laboratorio d’arte didattica@scuderiequirinale.it





 
 
 

 


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