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CARLO LEVI - IL VOLTO DEL NOVECENTO
CARLO LEVI "Il volto del novecento" 100 opere di Carlo Levi fra pitture e...

19/08/2013
 
 


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Lo Studiolo
SCRITTI D’ARTE » Approfondimenti da testi

 
Francesco Petrarca è il primo a mostrare un deciso interesse per l’antico e a formare una piccola collezione nel suo studiolo di Arquà ove conservava medaglie e antiche monete in seguito donate a Carlo IV di Boemia che le sistemò all’interno della sua Cappella di Karlenstein insieme a reliquie e oggetti tipici di una Wunderkammer nordica. Di fondamentale importanza fu soprattutto l’attività di promozione che il Petrarca seppe espletare nei confronti della valutazione dell’antico fungendo da principale stimolo alla nascita della conservazione e della raccolta del materiale archeologico in tutti i principali centri italiani.
Il medico e letterato padovano Giovanni Dondi conosceva bene il Petrarca, la sua collezione era fatta di epigrafi e monete e la sua devota ammirazione per i monumenti antichi,testimoniata dalla lettera scritta da Roma nel 1375, rieccheggia i motivi umanistici, politici e nazionalistici di Cola di Rienzo e dello stesso Petrarca.
Un successivo stimolo alla conoscenza e alla raccolta delle antichità venne dato nel veneto dall’attività di disegnatore e di studioso testimonianze di Ciriaco d’Ancona che ci ha tramandato notizie curiose su raccolte viste in giro per il mondo, come quella del comandante Giovanni Dolfin osservata in una galera veneziana ancorata nel 1445 a Candia. Collezionista accorto era il nobile veneziano amico di Ciriaco Ludovico Trevisan.
A fine Quattrocento Pietro Barbo, eletto papa con il nome di Paolo II, porta da Venezia a Roma la cultura umanistica del nord e il collezionismo archeologico istallando la sua collezione nel palazzo di San Marco. Tra le preziosità possedute dal papa umanista spiccano alcune monete antiche appartenute a Pisanello e cammei preziosi come la gemma di Apollo e Marzia acquistata in seguito dai Medici e finita in collezione Farnese con il matrimonio di Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, con Ottavio Farnese. Molti altri oggetti preziosi, tra cui la celebre Tazza Farnese, sono elencati nell’inventario del 1457 redatto forse dall’immancabile Ciriaco d’Ancona. Firenze La scarsità di reperti in loco orienta il collezionismo fiorentino del Quattrocento verso forme per così dire umanistiche; sono soprattutto studiosi, scrittori e storici a raccogliere monete, cammei e frammenti come materiale di studio per la ricostruzione dell’antico portata avanti parallellamente da poeti ed artisti.
Le più celebri collezioni quattrocentesche sono quelle degli umanisti Poggio Bracciolini - che raccolse materiale nella sua villa di Terranova modellata sull’antica accademia ciceroniana-, di Niccolò Niccoli -appassionato di glittica- e di Leonardo Bruni.
La famiglia Medici cominciò a collezionare dal tempo di Cosimo per via di scambi diplomatici e arricchendo enormemente la raccolta ai tempi di Lorenzo. A questa data le statue e i rilievi erano disposti nel giardino e nei portici del palazzo di Via Larga, i busti degli Imperatori e di uomini illustri sulle sovrapporte del primo cortile, mentre gli oggetti di piccolo formato vennero conservati nello studiolo. All’interno i saloni erano decorati preferibilmente con opere di pittura commissionate ai massimi artisti del tempo (Paolo Uccello, Pollaiolo e Benozzo Gozzoli). Un nucleo di sculture antiche era invece riservato ad un giardino che, a detta di Vasari, Lorenzo volle dedicare ad una sorta di Accademia per gli artisti: nel giardino di San Marco, tra statue e rilievi antichi e moderni si educò il giovane Michelangelo.  Nel 1447 Lionello d'Este decise di decorare il proprio studiolo nella Palazzina di Belfiore a Ferrara, seguendo le indicazioni dettate appositamente dal suo antico precettore, l'umanista Guarino Veronese, circa una serie di dipinti raffiguranti le Nove Muse. La realizzazione del progetto, proseguita dopo la morte di Lionello (1450) da Borso d'Este (m.1471), si protrasse a lungo cosicché esso venne in parte modificato. Lionello affidò la commissione ad Angelo Maccagnino da Siena; nel 1449 Ciriaco d'Ancona vide completate la Clio e la Melpomene; Cosmè Tura, infine, risulta nei pagamenti di Borso tra 1459 e 1463. I dipinti dello studiolo andarono dispersi a seguito dell'incendio del 1632, ma sulla base del programma dettato da Guarino nella lettera del 5 novembre 1447 sono stati rintracciati otto tra i dipinti ferraresi, attualmente divisi tra diversi musei: la Erato e la Urania dell'eredità del marchese Strozzi-Sacrati, attribuiti a Angelo Maccagnino e collaboratori di Cosmè Tura, come la Tersicore del Poldi Pezzoli di Milano; la Calliope  di Cosmè Tura presso la National Gallery di Londra; la Talia di Michele Pannonio, conservata, insieme alla Euterpe e alla Melpomene , di anonimo artista ferrarese, presso il Museo di Belle Arti di Budapest; e la Polimnia , ugualmente di anonimo ferrarese, presso il Museo Statale di Berlino. La singolarità delle connotazioni delle Muse in questione impedì a lungo la corretta identificazione dei soggetti dei suddetti dipinti: infatti la Talia veniva interpretata come una Cerere, la Calliope come una Primavera, la Tersicore come una Caritas, quest'ultima anche in virtù dell'iscrizione sul basamento.
Ma l'allontanamento delle Muse dall'iconografia tradizionale si deve appunto alla particolare interpretazione che Guarino aveva dato delle Muse: mentre considerò tradizionalmente Calliope come rappresentante del principale genere poetico, Clio come musa della Fama, Urania dell'astronomia, Euterpe della musica e Tersicore della danza, attribuì invece non solo a Melpomene la tutela del canto anziché della tragedia, ma soprattutto a Erato, musa della poesia erotica, quella dei matrimoni e a Talia, musa della commedia, e Polimnia, la musa dell'inno sublime, quella dell'agricoltura.   In Palazzo Vecchio, tra il Salone dei Cinquecento e la camera da letto dei granduchi, Francesco I de' Medici volle costruire il suo "Studiolo", ovvero un "guardaroba di cose rare et pretiose" ma anche stanzino privato dove ritirarsi nelle più segrete e intime meditazioni. A tal fine, nel 1570 l'erudito Vincenzo Borghini fu incaricato di ideare un programma iconografico in grado di tradurre la raffinata personalità del committente e insieme la sua passione per la "fonderia medicinale" e l'alchimia. Il programma, che entusiasmò il principe ancor prima di essere completamente definito, fu realizzato da un'équipe di pittori guidata da Giorgio Vasari, mentre la decorazione marmorea fu ultimata nel 1572 e nello stesso periodo furono realizzate da valenti scultori le statuette in bronzo per le nicchie degli angoli. Lo Studiolo ebbe tuttavia vita breve: presto abbandonato dallo stesso Francesco in favore di Pratolino, fu il fratello Ferdinando, divenuto granduca, ad ordinarne lo smantellamento. Ridotto a deposito di carbone, è stato ricomposto agli inizi del nostro secolo. Studiolo di Palazzo Vecchio: il programma iconografico  Lo  Studiolo nella presentazione attuale Vincenzo Borghini immaginò una raffigurazione basata sui quattro elementi primari, secondo lo schema aristotelico già adottato da Isidoro di Siviglia, e sul binomio Arte/Natura. Il centro della volta doveva contenere l'allegoria della Natura, con ai lati le allegorie della Terra, dell'Acqua, dell'Aria e del Fuoco, associate agli umori Secchi, Freddi, Umidi e Caldi e alle umane "complessioni", cioè la Malinconia, la Flemma, il Sangue e la Collera. Nelle nicchie laterali erano collocate otto statue di divinità: Plutone e Opi, Venere e Anfitrite, Giunone e Borea, Apollo e Vulcano. Mentre le lunette erano dedicate alle Stagioni (ma Francesco vorrà anche i ritratti di Cosimo e Eleonora) nelle pareti si rappresentavano i più preziosi frutti della Natura. Studiolo di Palazzo Vecchio: i pittori

Francesco Morandini detto il Poppi e Jacopo Zucchi affrescarono la volta del soffitto. Per la realizzazione delle lastre in ardesia delle pareti e degli ovati degli armadi Vasari chiamò i migliori pittori attivi a Firenze nel periodo. Oltre allo stesso Vasari, tra la fine del 1570 e gli inizi del 1572 lavorarono allo Studiolo Alessandro Allori, Giovan Battista Naldini, Girolamo Macchietti, Jacopo Zucchi, Giovanni Stradano, Alessandro Fei detto Del Barbiere, Santi di Tito, Maso da Sanfriano, Carlo Portelli, Jacopo Coppi detto "il Meglio", Giovanmaria Butteri, Domenico Buti, Niccolò Betti, Francesco del Coscia,Giovanni Fedini, Sebastiano Marsili, Andrea del Minga, Bartolomeo Traballesi, Vittore Casini, Mirabello Cavalori e Lorenzo Vaiani detto "dello Sciorina". Studiolo di Palazzo Vecchio: gli scultori

Anche per la realizzazione delle otto statuette bronzee, collocate tra il dicembre 1570 e l'aprile del 1575 nelle nicchie agli angoli dello Studiolo, Vasari si affidò ai più valenti scultori attivi a Firenze: Vincenzo Danti, Domenico Poggini, Bartolomeo Ammannati, Giambologna, Giovanni Bandini dell'Opera, Elia Candido, Stoldo Lorenzi e Vincenzo de' Rossi.




 
 
 

 


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