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CARLO LEVI - IL VOLTO DEL NOVECENTO
CARLO LEVI "Il volto del novecento" 100 opere di Carlo Levi fra pitture e...

19/08/2013
 
 


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Falsi d'autore a Siena
SCRITTI D’ARTE » Approfondimenti da testi

 
   
FOTO PRESENTI 4
 
Joni Icilio Federico  copia da Girolamo di Benvenuto
Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA GIROLAMO DI BENVENUTO
Martirio di santo Stefano da Girolamo di Benvenuto Tempera su tavola, cm 31,5 x 45,4 Siena, collezione privata
 Joni Icilio Federico  copia da Neroccio di Bartolomeo Landi
Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA NEROCCIO DI BARTOLOMEO LANDI
Madonna con il Bambino, santa Maria Maddalena e san Sebastiano da Neroccio di Bartolomeo Landi Tempera e oro su tavola, cm 109,2 x 72,1 New York, The Metropolitan Museum of Art Robert Lehman Collection 1975
 Joni Icilio Federico copia da Sano di Pietro
Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA SANO DI PIETRO
I santi Cosma e Damiano e i loro fratelli di fronte al proconsole Lycia da Sano di Pietro Tempera su tavola, cm 27,1 x 39,9 New York, The Metropolitan Museum of Art Robert Lehman Collection 1975
Joni Icilio Federico copia da Giovanni bellini
Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA GIOVANNI BELLINI
Cristo in pietà fra i dolenti Stile prossimo a Mantenga (da Giovanni Bellini) Tempera su tavola, cm 52 x 34,5 Siena, Società di Esecutori di Pie Disposizioni collezione Bologna Buonsignori
   
Anni fa, rovistando tra i documenti gelosamente conservati nel Getty Research Institute di Los Angeles, mi imbattei in una lettera datata Firenze 4 ottobre 1819. In essa Luigi Ademollo, un talentuoso pittore neoclassico di origine lombarda che ha inondato con i suoi dipinti murali le pareti di chiese, ville e palazzi di mezza Toscana, scrive ad un suo amico senese, l'abate de Angelis, rievocando un episodio svoltosi a Siena più di 20 anni prima.
Si era nel 1798, e l'Italia era percorsa in lungo e in largo dall'Armata francese. A Siena, dove Ademollo temporaneamente ri -siedeva, capitò Giuseppe Bossi, anch'egli lombardo, anch'egli pittore di provata fede neoclassica e destinato a divenire il prestigioso segretario dell'Accademia di Brera. Lo accompagnava un non meglio identificato «Signore inglese», che sospetto fosse William YoungOttley, uno dei più precoci protagonisti di quella «fortuna dei Primitivi», che fece capolino prima timidamente, insinuandosi quasi di sop-piatto tra le pieghe del revival neoclassico, per poi dilagare nel corso dell'800, quando nelle Accademie i calchi dei capolavori antichi furono relegati nelle cantine e trionfalmente sostituiti dai «fondi oro» e dal culto degli artisti fioriti «prima di Raffaello».
Scortato da Bossi, l'inglese aveva comperato «per pochi paoli» alcuni dipinti su tavola del Due-Trecento, che non potendo al momento essere trasportati a Milano erano stati depositati presso Ademollo in attesa di tempi migliori. Ma erano passati anni e anni senza che nessuno si facesse vivo con il pittore, il quale, nel lasciare Siena, aveva a sua volta affidato le tavole ad un suo fiduciario locale. Vent'anni dopo, Bossi era morto e anche il «custode» senese delle tavole era passato a miglior vita, quando, del tutto inaspettatamente, Ademollo si era visto recapitare l'ingiunzione di restituire al legittimo proprietario inglese quei «fondi oro», di cui erano puntigliosamente specificati soggetto e misure. Di qui la lettera con cui il pittore ricapitolava all'amico abate l'intera faccenda, nella speranza di ottenere il suo aiuto a rintracciare quelle «gotiche pitture». Le quali, a suo dire, erano prive di qual-siasi rilevanza estetica e venale, ma presentavano tutt'al più qualche interesse di tipo erudito, trattandosi di testimonianze dei primi e incerti «rudimenti
dell'arte».
Anche ammesso che Ademollo fosse in buona fede nel giudicare di scarsissimo valore quei «fondi oro» (che invece, anche solo a giudicare dai dati in nostro possesso, dovevano essere
tutt'altro che insignificanti), la lettera approdata al Getty apre comunque un significativo spiraglio sulle prime incursioni nel Belpaese di collezionisti d'oltralpe a caccia di tesori medievali, ceduti ad infima prezzo perché sottovalutati Néèmeno interessante la luce che essa getta sul ruolo, non necessariamente disinteressato, svolto da intellettuali d'avanguardia, come Bossi e de Angelis, dei quali diversamente da Ademollc sappiamo per certo che erano perfettamente in grado di comprendere il reale valore di simili «gotiche pitture».
L'episodio in questione mi è inevitabilmente riaffiorato alla memoria mentre visitavo questa affascinante mostra senese («Falsi d'autore. lei Ho Federico foni e la cultura del falso tra Otto e Novecento», S. Maria della Scala, fino al 3 ottobre), che ha per protagonisti alcuni dei più abili falsari di opere d'arte attivi in Italia tra fine Otto e inizi Novecento. Un'epoca in cui ormai i «fondi oro» e, più in generale, le opere d'arte italiane del Tre-Quattrocento non costituivano più il trofeo eccentrico di pochi «intendenti», ma avevano monopolizzato il mercato internazionale, essendo divenuti l'ambita preda di tutti i maggiori musei e collezionisti europei ed americani.
Rispetto a quanto accadeva ai tempi di Bossi e Ademollo, chi in Italia possedeva quegli «oggettidel desiderio» non era più disposto a sbarazzarsene «per pochi paoli», e il ruolo degli artisti locali, in non pochi casi, si trasformò da quello di «fiancheggiatori», più o meno in buona fede, a quello di «spacciatori».
Centrata sul caposcuola indiscusso di questa nutrita schiera di artisti-falsari, queU'Icilio Federico Joni (1866-1946) che con la sua tecnica a dir poco prodigiosa riuscì ad ingannare perfino quella volpe dall'occhio infallibile che fu Bernard Beren-son (il quale, accortosi dell'inganno, non esitò ad incontrare Joni, stabilendo con lui un'intesa non priva di ambigui risvolti collusivi), la mostra allinea un centinaio di falsi «Primitivi», molti dei quali smascherati solo di recente, in cui rifulgono le in -credibili doti mimetiche e le consumate scaltrezze tecniche, ma anche l'intima adesione al mondo figurativo del passato non solo di Joni, ma di tutta una scelta compagnia di falsari senesi e non, tra cui spicca il pro-teico Alceo Dossena, capace di eseguire con identica e stupefacente maestria Madonne a'ia Giovanni Pisano, rilievi dona telleschi e, chissà, forse anche qualche falso kouros greco; oppure quell'Umberto Giunti, che di recente proprio il curatore della mostra, Gianni Mazzoni, ha identificato come autore di tutti quei posticci frammenti d'affresco in stile botticelliano, che Zeri raggruppò sotto il nome di comodo di «Falsario in calcinaccio».
È perfettamente condivisibile l'intento di Mazzoni di contestualizzare l'attività di queste «simpatiche canaglie» nel clima di recupero della propria identità culturale e di rigetto della «civiltà delle macchine», che caratterizzava l'Italia e Siena tra Otto e Novecento, in sintonia con il ripristino architettonico di mura e torri merlate, e con il fiorire di Istituti d'arte impegnati a far rivivere le tecniche tradizionali sull'esempio dell'Arts & Crafts Movement inglese. Meno convincente appare invece il tentativo, che affiora tra le righe del catalogo, di gabbare per autentici valori estetici i parti dell'inarrivabile virtuosismo tecnico di personaggi come Dossena o Joni. Chissà come se la ride, quest'ultimo, dall'ai di là, di fronte a queste affermazioni, ancorché fatte a mezza bocca! Che soddisfazione, per un falsario inveterato come lui, che si era coniato come motto un acrostico enigmatico, Paicap, che solo ora, grazie a testimonianze d'epoca rinvenute da Mazzoni, siamo in grado di sciogliere ("Per andare in c... al prossimo " ) !





 
 
 

 


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