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Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
TUTTE LE MOSTRE » Mostre in Italia 2005

 
   
FOTO PRESENTI 15
 
Anonimo
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
ANONIMO
Tintoretto
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
TINTORETTO
Tiepolo
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
TIEPOLO
Anonimo
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
ANONIMO
Roi pietro
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
ROI PIETRO
Bellini Giovanni Madonna col Bambino
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
BELLINI GIOVANNI MADONNA COL BAMBINO
Olio su tavola, 79 x 60 cm Carzago (Brescia), Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Forabosco,Girolamo  Ragazza allo specchio
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
FORABOSCO,GIROLAMO RAGAZZA ALLO SPECCHIO
Olio su tela, 52 x 39 cm Venezia, Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Guardi Francesco Paesaggio
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
GUARDI FRANCESCO PAESAGGIO
Guardi, Olio su tela, 21,5 x 31,5 cm Venezia, Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Palma il Vecchio Jacopo Ritratto di donna detta la Sibilla
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
PALMA IL VECCHIO JACOPO RITRATTO DI DONNA DETTA LA SIBILLA
Palma il Vecchio , Olio su tavola, 71,7 x 54,3 cm Carzago (Brescia), Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Padovanino Alessandro Varotari
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
PADOVANINO ALESSANDRO VAROTARI
detto il Padovanino, Leda e il cigno Olio su tela, 113 x 163 cm Carzago (Brescia), Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Ricci Secbastiano Venere accorre da Adone morente
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
RICCI SECBASTIANO VENERE ACCORRE DA ADONE MORENTE
Olio su tela, 130 x 153 cm Venezia, Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Tintoretto e bottega
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
TINTORETTO E BOTTEGA
MaffeiFrancesco Santa Cecilia
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
MAFFEIFRANCESCO SANTA CECILIA
Olio su tela, 110 x 81 cm Carzago (Brescia), Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
Tiepolo,Giandomenico Cristo e la Samaritana al pozzo
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
TIEPOLO,GIANDOMENICO CRISTO E LA SAMARITANA AL POZZO
Olio su tela, 85 x 106 cm Carzago (Brescia), Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
 Capriccio architettonico
Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini”.
CAPRICCIO ARCHITETTONICO
Olio su tela, 72 x 54 cm Venezia, Fondazione Luciano e Agnese Sorlini
   
Venezia - Lavori a Carzago, in provincia di Brescia, nel seicentesco Palazzo Sorlini. Lavori a Venezia, nel Palazzo Patriarcale in piazza San Marco. Risultato: due mostre a Venezia con le collezioni d’arte costrette al trasloco. La prima al Museo Correr, la seconda al Museo Diocesano. “Da Bellini a Tiepolo. La grande pittura veneta dalla collezione Sorlini” (dal 29 ottobre al 26 febbraio 2006 al primo piano del Museo Correr) è una selezione delle circa duecento opere d’arte antica che dal dopoguerra sono state raccolte da Luciano Sorlini “per arredare le case”. Dipinti passati in collezioni anche reputatissime come quelle imperiali di Praga, di Cristina di Svezia, o l’italiana Contini-Bonacossi. Sono 49 dipinti e un disegno, di autori veneti e veneziani dal Quattrocento (ma c’è anche il trecentesco Semitecolo) al Settecento, dall’umanesimo veneto al rococò internazionale. Da Giovanni Bellini e dal Savoldo a Jacopo Palma il Vecchio, a Sebastiano e Marco Ricci, Giannantonio Pellegrini, Gaspare e Antonio Diziani, Pietro Longhi, Giambattista e Giandomenico Tiepolo, Canaletto, Francesco Guardi, Jacopo Amigoni. Sparsi nelle tre dimore della famiglia (Carzago, Palazzo Grimani dell’Albero d’oro sul Canal Grande, il castello di Montegalda in provincia di Vicenza) vengono presentati per la prima volta al pubblico con l’obiettivo di formare una pinacoteca con sede nel palazzo bresciano e di renderla visitabile regolarmente. Una pinacoteca completata da mobili e oggetti di arredo, sculture, bronzetti all’altezza dei dipinti. Il primo passo è stata la formazione (nel 2002) della “Fondazione Luciano e Agnese Sorlini” con sede a Carzago che ha organizzato la mostra in collaborazione con i Musei civici veneziani. Il curatore della mostra Filippo Pedrocco (catalogo Marsilio) ha scelto soggetti quanto mai vari per estrarre il meglio dalle opere a disposizione, con escursioni in campi non praticati normalmente dagli artisti come “Il San Vincenzo Ferrer”, fervido predicatore contro gli eretici, dipinto da uno specialista di grande fama della veduta come Francesco Guardi. Pittura di storia e mitologia, Vecchio e Nuovo Testamento, soggetti religiosi, ritratti, paesaggi e capricci architettonici, battaglie. Fra i dipinti quattro bozzetti: uno di 26 per 20,5 centimetri, ma prezioso perché è lo studio preparatorio di un’opera perduta, “Transito della Vergine” di Giambattista Pittoni (1687-1767) per una chiesa di Venezia, dal quale si ricavano “forme vibranti” di “rapidissime e nervose pennellate assai ricche” di materia colorata, con la Vergine vestita di “azzurri e rosa luminosissimi”. Prima fila temporale dunque per il veneziano Nicoletto Semitecolo di cui si hanno solo notizie fra 1353 e 1370 (si sa ad ogni modo che ha fatto parte della bottega di Paolo Veneziano e che fu il Guariento ad introdurlo a Padova) con una “Pietà” su tavola dalla storia interessante. Si tratta infatti dell’elemento centrale della facciata interna dell’opera più importante di Nicoletto dipinta a Padova nel 1367: la pala a comparti per l’altare di Santo Stefano nell’antica cattedrale. Era una pala a protezione delle reliquie, che doveva seguire il loro calendario di celebrazioni: quando erano presentate ai fedeli la pala si apriva e anche la “Pietà” diventava visibile. E come era visibile. Il fondo è un intenso uniforme colore rosso, il colore del sangue, su cui spiccano le grandi aureole a fondo oro con contorno nero del Cristo morto, fra la Madonna e San Giovanni ripresi a metà figura. Sembra quasi che il corpo di Cristo venga estratto dal sepolcro, con le piaghe sanguinanti di mani e costato. L’ iconografia viene considerata rara nel Trecento, forse vuole sottolineare il rapporto fra la morte di Cristo e la morte dei santi di cui le reliquie erano custodite dietro la pala. Di Giovanni Bellini c’è “Madonna col Bambino” o “Madonna in rosso”, tavola forse del 1480-85, così denominata dal colore del manto, molto mosso, che fa anche da grande scialle. Ha fatto parte di una delle più importanti collezioni italiane, la Contini Bonacossi. Altro non si sa prima di allora. Caratteristica particolare è che il Bambino è addormentato, su di un parapetto, e la Madonna lo prega a mani giunte. Viene interpretato come premonizione del sacrificio, ma è anche uno dei rari momenti di tranquillità della Madonna-Madre senza che il Bambino sia in equilibrio apparentemente instabile, in piedi o perché si agita mentre gioca con San Giovannino, e di cui in ogni caso una madre non può non preoccuparsi. Palma il Vecchio si propone con “Ritratto di donna detta la Sibilla”, una bellezza sensuale e seducente, di una qualità pittorica che non teme il confronto col Tiziano: il dipinto è passato infatti in almeno tre delle collezioni più famose d’Europa e una versione simile è nelle collezioni reali inglesi. Jacopo fa scendere la curatissima camicia bianca al punto giusto sull’ampio petto, fino all’aureola del capezzolo, e le bionde chiome sparse. Sguardo e bellissimo volto sono fissati ad un interlocutore fuori della scena. Nel “Riposo nella fuga in Egitto” del Savoldo è vietato perdersi lo “splendido sfondo naturalistico, di derivazione nordica e l’ampia veduta di un’insenatura marina”. Un “pezzo di virtuosistica bravura”, di una “pennellata leggera, quasi di tocco”, è la “Ragazza allo specchio” di Girolamo Forabosco, allievo a Venezia del Padovanino ed erede di Tiberio Tinelli, considerato il ritrattista, oggi si direbbe più “in”, dei primi decenni del Seicento. Qui Forabosco capovolge le regole e riprende la ragazza di spalle mentre si controlla e controlla la pettinatura in un piccolo specchio. Antonio Zanchi (1631-1722) è “uno dei massimi esponenti della corrente ‘tenebrosa’ che ebbe grande successo a Venezia” nel Seicento. Nel “Giuseppe Ebreo interpreta i sogni in carcere” (e sconvolge con le previsioni il faraone che lo nomina viceré) colpisce “l’inusuale colorismo degli abiti azzurri e arancio” di Giuseppe. Sebastiano Ricci passa dall’ “eccezionale freschezza ed eleganza”, “dal vibrare della luce” sui corpi negli ovali “Bacco e Arianna” e “Anfitrite e le ninfe del mare”, all’ “inusuale enfasi drammatica” di “Venere accorre da Adone morente”. Altissima la “qualità del gioco della luce al tramonto”. Giannantonio Pellegrini raffigura Ermafrodito (il figlio di Ermes e Afrodite), prima della trasformazione in metà uomo e metà donna. Fu la ninfa Salmace, innamorata e respinta dal giovane spaurito e in fuga per la sua aggressività, a chiederlo agli dei: Salmace si unirà in eterno in Ermafrodito, ma inutilmente. Un dipinto giudicato “splendido” per la “pennellata guizzante” e le “tonalità chiarissime del colore”. Scopriamo il celebre figurista settecentesco Gaspare Diziani e la sua eccezionale raffinatezza formale in “Diana” (dalla notevole sensualità) e nei pendant “Bacco” e “Flora”, l’ “eccezionale freschezza di tocco e splendida brillantezza dei colori” nel “Sant’Agostino sconfigge l’eresia” bozzetto per un soffitto di un convento veneziano. La tela era nata di forma ottagonale e poi il pittore ha dovuto ampliare la scena e farla diventare rettangolare. Il figlio e allievo di Gaspare, Antonio, è autore di un capolavoro che è anche “un sorprendente e per certi versi coinvolgente documento visivo”. “Della misera esistenza dei ceti più poveri nelle desolate campagne del Veneto nel tardo Settecento”. Con questa “Veduta di un villaggio sul fiume” (65 per 171 centimetri) Antonio Diziani si colloca “in una posizione assolutamente antitetica rispetto ai più celebri ‘paesaggisti d’Arcadia’” come Giuseppe Zais (ugualmente in mostra) e i loro “pastorelli e pastorelle felici ed eleganti”. Giambattista Tiepolo è in mostra con “L’angelo della Fama” che è uno dei due frammenti di una grande tela, anche qui un soffitto, per il salone principale del veneziano Palazzo Grimani ai Servi, distrutto da un incendio nei primi anni dell’Ottocento. L’altro frammento è agli Uffizi. Il piccolo (72 per 54 centimetri) “Capriccio architettonico” è di un Canaletto ancora “romano”, appena rientrato dall’esperienza per certi versi sconvolgente nell’ambiente teatrale romano come scenografo, e sotto l’evidente influenza di Marco Ricci (l’ “accentuata tensione chiaroscurale”). Con una tela di dimensioni molto più ridotte del “Capriccio” (21,5 per 31,5), Francesco Guardi realizza quello che viene considerato uno dei suoi paesaggi meglio riusciti, in cui gioca con la luce solare che rimbalza da una grande casa e si riflette su di un corso d’acqua illuminando tutto il secondo piano del dipinto fino ai borghi, alle montagne innevate dello sfondo. Mentre il primo piano rimane in ombra. Un tipo diverso di commozione si ha davanti al “Cristo deposto dalla Croce” firmato dal Guardi, di “impressionante impatto drammatico”, un modello che nasce dalle popolari Vesperbild tedesche, con una cura particolare per la corona di spine e i chiodi messi in primo piano. Sullo sfondo luminoso si esibisce anche il Guardi paesaggista. Splendidamente. La seconda mostra nasce dall’ appena cominciato profondo restauro di strutture, impianti, decorazioni del Palazzo Patriarcale di Venezia (l’edificio di metà Ottocento a fianco della millenaria Basilica di San Marco). La mostra, al chiostro di Sant’Apollonia del Museo Diocesano, “Tintoretto, il ciclo di Santa Caterina e la quadreria del Palazzo Patriarcale”, rende visibili fino al 30 luglio 2006 capolavori difficilmente alla portata del pubblico per ragioni intuibili. Sono 42 fra dipinti (di solito di grandi e grandissime dimensioni, fino a tre-quattro metri), affreschi staccati, cartoni preparatori dei mosaici di San Marco con le figure di San Pietro e San Paolo (nella facciata) e di otto profeti. I soggetti sono tutti religiosi ad eccezione di tre inediti paesaggi campestri settecenteschi. La mostra prosegue con le argenterie liturgiche della Sala degli Argenti e le opere lignee con una pala di Paolo Veneziano che fanno parte del Museo Diocesano. Curatore della mostra don Gianmatteo Caputo, direttore del “Diocesano” e dell’ ufficio beni culturali del Patriarcato (catalogo Skira). A conclusione dell’intervento sul Palazzo Patriarcale (24 mesi, 7,5 milioni di euro) le opere non torneranno ad essere invisibili: il patriarca Angelo Scola si augura che ne possano godere “anche la nostra gente e tutti i visitatori”. La collezione del Patriarca riunisce opere dal Quattrocento ai giorni nostri (in mostra ci sono anche tre ritratti di anonimo con i patriarchi di Venezia diventati papi, i cardinali Sarto, Roncalli, Luciani). Provengono soprattutto da chiese soppresse o non più aperte al culto, istituzioni religiose cancellate, oltre a donazioni e prestiti temporanei. Il nucleo più importante della collezione (e della mostra), il ciclo di sei grandi tele con le storie di Santa Caterina d’Alessandria realizzato da Jacopo Tintoretto e bottega nella seconda metà del Cinquecento, è di proprietà della soprintendenza per il Polo museale veneziano. E la prima volta che viene presentato nella sua interezza da quando, nel 1974, è stato tolto dalla trecentesca chiesa veneziana di Santa Caterina per la quale era stato fatto. Il “Martirio delle ruote” comparve alla storica mostra sul Tintoretto a Ca’ Pesaro nel 1937 e tre tele alla ridotta mostra del Tintoretto a Parigi nel 1998. Si tratta di un gruppo di dipinti “poco considerati dalla critica” forse proprio per la loro collocazione, commenta Giovanna Nepi Scirè soprintendente del polo, ma che ristudiati nell’occasione hanno precisato date e ridimensionato il ruolo della bottega (fra cui il figlio di Jacopo, Domenico). I sei teleri furono salvati dalla chiesa di Santa Caterina, una delle tante chiese veneziane dalla secolare storia di usi impropri, degrado, recuperi parziali, abbandono, alla quale l’incendio del Natale 1977 finì per distruggere quello che aveva di più importante, il soffitto ligneo della navata centrale a carena di nave, uno degli ultimi esempi rimasti a Venezia. Col soffitto andarono perduti la volta del presbiterio affrescata dal Brusaferro, tre grandi quadri, i dossali intagliati del coro e furono rovinati i rilievi dell’altar maggiore e gli angeli. Perduta anche la copia moderna (ma particolarmente riuscita tanto da aver tratto in inganno gli esperti) del celebre capolavoro di Paolo Veronese, lo “Sposalizio di Santa Caterina” posto sull’altar maggiore (ora alle Gallerie dell’Accademia). Le sei tele del Tintoretto e C. (con dimensioni 1,70-1,75 per 2,30 metri) facevano corona, completavano quell’opera, disposte sulle pareti laterali a narrare le storie dell’intrepida vergine martirizzata sotto Massenzio ad Alessandria d’Egitto il 25 novembre 305. Caterina viene rappresentata mentre tiene testa con dotti argomenti all’imperatore che vuole farle sacrificare agli dei, agli esperti chiamati in soccorso da Massenzio, e poi in vari passaggi del martirio, fustigazione, imprigionamento, supplizio delle ruote che però si spezzano, e infine nella decollazione ripresa un momento prima, quando Caterina invoca l’aiuto di Cristo non per sé, ma per chi ha timore della morte (è il telero in cui maggiormente si riconosce la mano di Jacopo col figlio Domenico). A Caterina, imitatrice della passione di Cristo e sua identificazione, Cristo appare per farla sua sposa con le parole del Cantico dei cantici: “Vieni dilecta mia, speciosa mia”. Nel ciclo l’iconografia di Santa Caterina “arriva al culmine” del nuovo modello di santità nell’arte dettato dal Concilio di Trento nel dicembre 1563. La santa non è più comprimaria come in una pala “sontuosa”, “di impronta mistica-medievale”, ma protagonista di una “storia”, in “una luce Cristo-centrica”, ed esplica pienamente la sua funzione mediatrice per i comuni mortali (in contrasto con la Riforma protestante). Anche con spregiudicata fedeltà formale se nei tre teleri delle torture Caterina, raffigurata di solito come una giovane in ricche vesti, a volte con una corona in testa, appare nuda salvo un perizoma, con il corpo di un bianco luminoso fra i rossi, gli arabeschi, le armature nere, le ombre delle prigioni, i fasci dorati della luce della salvezza. In mostra i sei teleri sono diventati sette perché è stata aggiunta la spropositata tela (4,15 per 3 metri) dipinta nel 1618-23 da Jacopo Palma il Giovane:“La madre di Santa Caterina consulta i saggi per le nozze della figlia” e che proviene dalla stessa chiesa veneziana (nel Palazzo Patriarcale, per le dimensioni occupa l’atrio). Ad aprire la mostra è un capolavoro di Giovan Battista Tiepolo (1732 circa), una “Natività” imponente per le dimensioni (1,30 per 2,70 metri) e dall’iconografia rara con il Bambino steso su di un panno bianco nelle braccia di Giuseppe, in gruppo isolato, mentre la Madonna in veste rosa e manto blu è in primo piano, in adorazione. Proviene dalla basilica di San Marco e nella cappella privata del Palazzo Patriarcale è la pala dell’altare su cui celebra il patriarca. Nella stessa cappella è la “Deposizione” di Gregorio Lazzarini (inizio Settecento) di forma allungata, quasi tre metri, con l’impressionante resa delle costole del Cristo riverso. Con “L’Ultima Cena” si passa alla sala da pranzo del Patriarcato: è attribuita a Jacopo Palma il Giovane (1620 circa) che ha scelto colori dominanti viola e cremisi e risolve in modo originale il momento che mette in subbuglio gli apostoli, l’annuncio del tradimento. Vari apostoli sono in piedi o stanno per scattare, a protestare fedeltà a Cristo. (Goffredo Silvestri)  
 





 
 
 

 


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